Lo scrittore e il suo doppio: Pennac e Melaouah

Nel mondo esistono due tipi di persone: quelli che si entusiasmano a vedere il loro scrittore preferito e quelli che si entusiasmano  a  incontrare il traduttore del loro scrittore preferito. Sfortunatamente per voi, io appartengo al secondo tipo quindi  al Salone del libro di Torino  mi sono fiondata all’incontro “Lo scrittore e il suo doppio: Daniel Pennac conversa con la sua traduttrice Yasmina Melaouah”. Pennac è stato al Salone tutto venerdì 19 maggio ed ha partecipato ad altri due incontri per parlare di come educare alla lettura e del suo nuovo romanzo, “Il caso Malaussène. Mi hanno mentito” (Feltrinelli) . Ma come vi dicevo, non siete dei ragazzi fortunati.

In una stanzetta troppo piccola per la folla che l’attende, Ilide Carmignani (traduttrice di Luis Sepúlveda, R. Bolaño J. L. Borges e molti altri) coordina una serie di eventi sulla traduzione letteraria intitolati “L’Autore Invisibile”, tra cui quello tra Pennac e la sua traduttrice. Quando arrivo, la  fila ha già superato l’angolo quindi mi metto in coda, complimentandomi mentalmente per non aver sottovalutato la popolarità di Pennac (e, forse solo per oggi, della traduzione!). Al momento di entrare si consumano i soliti minuti di panico (ancora cinque persone poi basta, finito, addio per sempre) ma per fortuna riesco a sedermi (ndr, mi siedo a caso e capito di fianco a Gina Maneri, traduttrice dallo spagnolo e dal catalano, e Claudia Zonghetti, traduttrice dal russo, e per poco non mi viene un infarto, ma questa è un’altra storia).

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“Buongiorno a tutti, mi dispiace non parlare italiano, è una vergogna, dopo tutti questi anni..voilà, c’est tout ce que je sais dire en italian!” esordisce Pennac. La prima (lecitissima) domanda che Ilide gli pone è: perchè sei tornato a scrivere? E con estremo candore, lo scrittore risponde ” è semplicissimo, perchè ne avevo voglia!”. E continua: ” Avevo voglia di ritrovare la “scrittura malausseniana”, quel tipo di scrittura che avevo inventato per il ciclo dei Malaussène e che non è la mia scrittura abituale. E poi, volevo tornare a dar fastidio a Yasmina!”. E tra le risatine generali, ecco il primo segno della complicità tra i due. In un mondo ideale, tra gli scrittori e i loro traduttori c’è sempre un rapporto speciale, una sorta di alchimia. Questo caso, quello dell’accoppiata Pennac-Melaoauh, è unico: oltre ad essere colleghi e amici, Yasmina percepisce una percentuale di diritti d’autore sulle vendite dei libri di Pennac (un’eccezione nel nostro paese ma una regola all’estero!).  Pennac coglie ogni occasione per tessere le lodi della sua traduttrice: dice che in ogni sua pagina “ci sono almeno dodici problemi e Yasmina li risolve sempre tutti”. Un chiaro esempio è il titolo del terzo libro del ciclo dei Malaussène, in francese “La petite marchande de prose” e letteralmente, in italiano, “La piccola venditrice di prose”. Yasmina invece opta per un titolo fedele ma più leggero: la Prosivendola.

Per Yasmina, infatti, tradurre rappresenta anche “l’obbligo di prendersi delle libertà”. Tornare a tradurre Pennac per lei è stata una gioia ma anche il ritorno ad una scrittura – e quindi ad una traduzione- consapevole, costellata di “difficoltà intelligenti”.  Quella di Pennac è infatti una “spontaneità costruita” che si basa su salti di registro, giochi di parole e metafore. Ed è proprio sulla metafora che Pennac fa una lunga digressione, citando uno scrittore americano Raymond Chandler come maestro, e affermando che una metafora ben utilizzata permette di evitare lunghe descrizioni o analisi psicologiche. In traduzione, la metafora è l’emblema della libertà del traduttore che deve tradurre il senso della metafora, non l’immagine. A  proposito, Pennac cita una frase che era stata detta durante un incontro e che aveva messo d’accordo il pubblico: “Il traduttore è lo psicanalista dello scrittore”. E aggiunge che allora sarebbe anche ora di pagare gli scrittori come gli psicanalisti!

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“Scrivere per me è immergermi nella lingua francese, così come il traduttore s’immerge nella lingua madre” aggiunge. Con gli altri traduttori conserva un rapporto di amicizia e si preoccupa delle traduzioni più difficili, come quelle dei suoi libri in giapponese. Per esempio, in giapponese a volte “manca l’equivalente nelle piccolezze”: per esempio, mentre in Francia si chiamano i fratelli per nome, in Giappone bisogna chiamarli “Fratello”, senza utilizzare il nome proprio. Pennac è affascinato da queste differenze e sente che “ogni lingua è l’espressione di una sensibilità diversa”. E’ incuriosito dalle espressioni intraducibili e invita i traduttori presenti in sala a mandargli una mail con tutte le parole che non hanno un equivalente esatto in altre lingue da aggiungere al suo Dizionario delle parole intraducibili.

Pennac però pensa che non sarebbe un buon traduttore e l’unico consiglio che si sente di dare ai giovani traduttori è “ama la tua lingua e sii libero”. Durante la sua vita è stato scrittore e insegnante e ammette di aver tratto beneficio da entrambi i mestieri: “Non c’è niente che ti faccia più venire voglia di scrivere di un plico di verifiche da correggere e non c’è niente che ti faccia più venire voglia di entrare in classe di non riuscire a scrivere”. In classe  ha sempre ritrovato una sorta di “energia vitale” che ispirava la sua scrittura che chiama “ciclotimica”: “quando scrivo, scrivo tutto il giorno, ovunque. Quando non riesco, non c’è verso di scrivere un rigo”.Quando arriva la fatidica domanda (Quando uscirà il seguito del romanzo?), Pennac si alza in piedi, indica il suo editore seduto per terra a lato del palco e dice: MAI!

 

Quando le serie tv influenzano la politica

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Secondo un’inchiesta del New York Times, anche i telefilm avrebbero influito nell’esito delle scorse elezioni americane.

“Il divario culturale coincide fondamentalmente con la divisione tra città e zone rurali. Abbiamo visto un divario simile a Novembre, con Hillary Clinton ha vinto nelle grandi città e in quelle universitarie, nelle riserve dei Nativi Americani e nelle aree abitate da neri e ispanici. Trump ha guadagnato voti nelle zone rurali.”

Attraverso Facebook, i giornalisti sono riusciti a risalire ai 50 programmi televisivi seguiti in tre regioni diverse: le città e nelle loro periferie; nelle zone rurali; e in quella che viene chiamata  “Black Belt”, la zona che va al fiume Mississippi fino a Washington e che deve il suo nome ad una popolazione prevalentemente non-bianca.

Nelle zone urbane gli spettatori apprezzano il multiculturalismo e l’ironia: Modern FamilyThe Big Bang Theory sono le comedy più viste. I drama più apprezzati sono invece Orange is the new black e Game of Thrones. E’ inutile sottolineare che in queste serie appaiono coppie omosessuali e personaggi di etnie diverse (Gloria è ispanica, Raj è indiano, per non parlare delle gang di OITNB) e l’intrigo politico di GOT. Sono molto popolari anche Saturday Night Live e The Tonight Show, programmi serali che mescolano comicità e satira.

Nelle zone rurali invece sono popolari i docureality sulle neo-mamme (16 and pregnant, Teen Mom), le serie poliziesche (Criminal Minds, NCIS), il trash di The Vampire Diaries e Pretty Little Liars e i colpi di scena di Grey’s Anatomy e The Walking Dead. Un’altra serie che merita una certa attenzione è Duck Dinasty, un reality che segue la vita di una famiglia della Louisiana, fondatrice di un impero basato sulla vendita di richiami per anatre. I punti forti della serie sono la fede dei suoi protagonisti (quella religiosa e quella per le armi) e i loro violenti scontri, accompagnati da un linguaggio piuttosto forte. Ma la ciliegina sulla torta è il patriarca Phil Robertson, sospeso dalla serie per commenti anti-gay e razzisti, contrario all’ateismo e grande sostenitore del fatto che le malattie sessualmente trasmissibili siano una punizione divina.

Nella Black Belt spopolano cartoni (Spongebob, The Tom and Jerry show), reality femminili (Keeping Up With the Kardashians, Real Housewives of Atlanta, Bad Girls Club),  programmi  tv sul mondo della musica come Empire, Love & Hip Hop e 106 & Park, il legal crime di Law & Order, The First 48 e Scandal.

Questi dati rivelano come la televisione odierna, una volta grande strumento di unione sociale, oggi amplifichi le divisioni già presenti e le sfrutti per fare soldi, noncurante delle divisioni culturali che provocano tra il pubblico. Chissà in Italia che risultati darebbe un’inchiesta di questo tipo. Qualche suggerimento?

(Fonti: http://www.nytimes.com/interactive/2016/12/26/upshot/duck-dynasty-vs-modern-family-television-maps.html?_r=0#american_horror_story e http://ew.com/article/2016/11/17/duck-dynasty-phil-robertson-quotes-scandals/)

(Anti)Eroine del quotidiano

Ho sentito una volta di un uomo che leggeva un libro dopo l’altro, scegliendo il successivo in base ai riferimenti del precedente: se in un romanzo trovava la teoria delle stringhe, la sua prossima scelta sarebbe stato un manuale di fisica, e via dicendo. Mi è sembrato un progetto geniale, con tutto ciò che la parola genio comporta: la sregolatezza, l’azzardo, il caso. Ed in effetti c’è del caso in tutte le scelte, anche in quelle letterarie: la precedenza non va quasi mai ai libri sul comodino, anzi, spesso vincono quelli più a lungo trascurati, per senso di colpa, o quelli appena acquistati, con il loro fascino della novità ancora intatto. Nel mezzo rimangono gli altri, in attesa di essere aperti.

Due situazioni opposte, due letture casuali che mi hanno portato a riflettere sullo stesso tema: la religione nascosta nelle persone, la fede tradotta in scelte e atti quotidiani.

“La porta” di Magda Szabò attendeva sullo scaffale da quasi un anno: ricordo come, con i soldi di Natale, andai in Via Po a setacciare le bancarelle di libri usati in cerca di qualche titolo conosciuto, come lo era quel romanzo l’anno scorso. Oggi, la spinta pubblicitaria è scemata, ed io ho appena concluso la sua lettura.

Emerenc è il ponte tra l’essere umano e una creatura mitologica. Una strana definizione per quella che sarebbe poi semplicemente la donna delle pulizie della casa della scrittrice ungherese Magda Szabò. Emerenc non prega per i poveri, li aiuta, dà loro da vivere: è Gesù senza la Chiesa. Sotto il foulard inamidato si nasconde la personificazione dei valori cristiani e lo spirito di un’autentica blasfema: la sua aura fantastica deriva dal suo altruismo e dal suo instancabile lavoro che si traduce in pavimenti lucidi e “piatti dell’amicizia” e la sua fama dal suo caratteraccio permaloso, retrogrado, e anticlericale.  Infatti, la vecchia non va ma a messa, va a i funerali solo per spiare le tombe degli altri e ridicolizza ogni atto religioso, perchè in fondo vale molto di più il tempo speso con qualcuno di quello che si perde tra preghiere e sermoni. La sua è una religiosità atipica perchè si manifesta in maniera inaspettata mentre la fede della stessa scrittrice, fatta di cerimonie al tempio e riti famigliari, vacilla al confronto di tanta bontà.

 

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Dipinto di Roberta Coni

 

Sono due gli episodi che mi hanno scosso nel profondo e cambiato in un certo senso il mio modo di pormi nei confronti degli altri. Il primo avviene durante il periodo pasquale: la scrittrice è devota alle sue tradizioni di famiglia, tra le quali ci sono la funzione al tempio e un pasto magro. Allo stesso tempo però, suo marito attraversa un periodo di salute molto critico ed Emerenc percepisce con la sua sensibilità dalla grana finissima la dura verità:

Non lasci che il padrone se ne vada all’altro mondo con quelle prugne nello stomaco, con quella dieta insipida che lo obbliga a seguire e nemmeno col ricordo di lei che corre sempre destra e a sinistra o che picchia tutto il giorno, quando sta in casa, su quella macchina da scrivere; neanche oggi, per esempio, è rimasta con lui per andare a pregare. Lo faccia ridere di gusto una buona volta, questo vale come un padre nostro.

L’altro episodio si svolge durante le feste di Natale, quando la signora Szabò regala ad Emerenc una televisione, credendo di farle un grande favore, mentre l’apparecchio non sarà che l’ennesimo suppellettile polveroso nella casa della vecchia, troppo indaffarata per vedere qualsiasi programma diurno. L’unico vero regalo che Magda potrebbe fare alla donna è aiutarla, e non pregando per la sua anima, ma scendendo in strada e facendo il suo lavoro, permettendole di riposarsi. Ma per la scrittrice, come spesso per tutti, basta il pensiero dell’aiuto come dimostrazione della buona volontà, mentre le azioni si perdono nel tran tran della comoda vita quotidiana.

Emerenc era generosa, caritatevole, buona, onorava Dio con le sue azioni pur negandone l’esistenza, Emerenc era disposta al sacrificio, a lei riusciva spontaneo tutto ciò che io dovevo impormi con un certo sforzo, e non importava che agisse inconsapevolmente, la bontà di Emerenc era naturale, io, invece, mi ero educata a esserlo, mi ero obbligata col passare del tempo a rispettare alcune norme etiche. Emerenc un giorno sarebbe stata capace di farmi capire, senza dire nemmeno una parola, che quello che io ritenevo fosse fede era invece una specie di buddismo, un semplice rispetto delle tradizioni, la mia morale non era altro che disciplina, il risultato dell’allenamento al quale mi avevano sottoposto il collegio, la scuola, la famiglia.

La purezza della vecchia è ancora più eccezionale se la si confronta con le tragedie del suo passato. La storia dell’Ungheria del Novecento s’infila nelle sua vita privata, mischiando il suo destino a quello di rifugiati politici ed ebrei perseguitati, portandola a soffrire talmente tanto da decidere di rinunciare agli uomini e all’amore. Questa rinuncia è però fittizia perché Emerenc non può arginare i suoi sentimenti nei confronti della scrittrice, che rappresenta la figlia che non ha mai avuto. Contrariamente a ciò che ci si aspetterebbe quindi, tanti tradimenti, inganni, delusioni portano la donna verso una specie di santità in terra:

Era d’esempio per tutti, aiutava tutti, era un modello: dalle tasche del suo grembiule inamidato saltavano fuori caramelline di zucchero avvolte nella carta frusciante e fazzoletti di tela che stormivano come colombi, era la regina della neve, la sicurezza, la prima ciliegia dell’ estate, il tonfo delle castagne che cadevano dai rami d’ autunno, la zucca alla brace d’inverno, la prima gemma nella siepe d’estate: Emerenc era pura, vulnerabile, lei era ciò che tutti noi, i migliori di noi, avremmo voluto essere.

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Dipinto di Roberta Coni

Mentre la storia di Emerenc ha aspettato a lungo prima di essere scoperta, il contrario è successo per “La Vegetariana”: è stato un colpo di fulmine molto economico (bancarelle dell’usato docet) che ho deciso di leggere subito, incuriosita dal suo successo internazionale.

Un’altra via per raggiungere la santità è il sacrificio corporeo, la rinuncia alla vita. Yeong-hye decide di diventare vegetariana in seguito ad un sogno terribile, che è forse l’espressione della violenza che si è sedimentata nella sua vita, a partire dall’infanzia, quando era la vittima sacrificale delle sfuriate del padre, fino al sottile abuso coniugale del marito, fatto di insulti e spintoni.

O forse, semplicemente, dentro di lei accadevano delle cose, delle cose terribili, inimmaginabili per chiunque altro, e quindi le era impossibile occuparsi contemporaneamente della vita di tutti i giorni.

La vegetariana è, se non si fosse già capito, un romanzo del forse: aperto a tante interpretazioni quante sono i suoi lettori, è un romanzo della trasparenza, in cui ogni lettore vede se stesso e le sue idiosincrasie riflesse. Io, per esempio, vedo il risultato di una società patriarcale su di una donna. Altri, vedono la follia. Infatti, Yeong-hye passa dal rifiuto della carne al poi rifiuto della vita,del suo stesso sangue, per cercare di diventare una pianta: smette di mangiare e si denuda in pubblico, al sole, come se fosse capace di fare la fotosintesi.

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Fotografia di Sayaka Maruyama

Nonostante sia nell’intento dell’autrice creare un’aura di mistero attorno alla protagonista attraverso il racconto di tre persone a lei vicine, costruendo un fuoco incrociato su Yeong-Hye, in un’intervista dichiara che la donna non è pazza, anzi, è lucida, coerente con le sue esperienze personali. La sua lucida pazzia ricorda quella di Don Chisciotte (“yo fui loco, y ya soy cuerdo”) , ma molti altri elementi allontanano quest’opera dal capolavoro spagnolo: lo stile asciutto e le atmosfere oniriche si riallacciano infatti alla tradizione orientale:

Io sono stata buddhista e chissà, forse lo sono ancora. Ma non mi considero una persona religiosa. Nel buddhismo esiste questa colpa, la colpa dello strappare con violenza le cose a Madre natura. E a volte sì, mi sento in colpa anch’io.

(Tratto da un’intervista all’autrice Han Kang)

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Fotografia di Sayaka Maruyama

Yeong-hye è inconsciamente buddista: nella carne, nella distruzione, vede non solo la sua sofferenza, ma quella di tutti gli esseri. E ancora, realizza che per sopravvivere bisogna esercitare violenza, quindi decide di morire come essere umano e rinascere sotto forma di vegetale.

E’ solo grazie al caso che un’autrice ungherese ormai deceduta si è avvicinata, per un attimo, ad un’autrice sudcoreana, grazie alla creazione di due martiri laiche, due eroine della quotidianità.

Libri citati:

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La porta, Magda Szabò, traduzione di B. Ventavoli, Super ET, Einaudi

La vegetariana, Han Kang, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi edizioni

Una lista di buoni propositi (letterari)

Anno nuovo, libri nuovi. Se nel 2016 ho letto (addirittura!) 57 tomi secondo Goodreads, dubito che in questo 2017 ce la farò. Infatti, quest’anno mi voglio dedicare a qualcosa di emotivamente, fisicamente, intellettualmente impegnativo: i big books.

Ecco una lista disordinata dei libri che mi aspettano sul comodino e che lo stanno facendo quasi ribaltare:

  1. A Little Life, Hanya Yanagihara, Picador, 2015

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Acquistato quasi un anno fa a Londra, è rimasto in attesa di tempi migliori: sono 736 pagine in inglese, dato che ho voluto averlo subito invece di aspettare la traduzione italiana, uscita in questi giorni per Sellerio a cura di Luca Briasco.

2. Libertà, Jonathan Franzen, tradotto da Silvia Pareschi, edito da Einaudi nella collana Numeri Primi, 2012

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Si tratta di un delitto recente: comprato alle bancarelle di Via Po a Torino a metà prezzo, conta ben 622 pagine di drammi famigliari. Ho letto Le Correzioni da molto tempo ormai e mi è venuta un po’ di nostalgia, tutto qui.

3.Rayuela, Julio Cortázar, edizioni Alfaguara, 2013

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Iniziato sul Kindle, ho pensato che fosse uno di quei libri che devi avere per sfogliarlo, fare orecchie, sottolineare e vivere. E’ uno dei regali di Natale più belli che ho ricevuto. In lingua originale, nell’edizione commemorativa del 50esimo anniversario, 632 pagine.

4. Life after Life, Kate Atkinson, Back Bay Books, 2013

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Preso due anni fa alla splendida Strand di New York, usato. Me l’avevo consigliato una commessa su non so quali miei indicazioni. Nel frattempo è stato tradotto in italiano da A. Storti e pubblicato dalla casa editrice Nord. 521 pagine.

5. Il piccolo amico, Donna Tartt, Rizzoli, traduzione di  I. Landolfi, G. Maccari, 2014

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Il classico acquisto impulsivo di non so neanche quanto tempo fa. Semplicemente, ho già letto tutto della Tartt (non che sia molto, scrive un libro ogni dieci anni circa) e non volevo perdermi il suo romanzo d’esordio, anche se i toni macabri non mi hanno mai spinto a iniziarlo. Però lo stile sarà sempre l suo, ed è questo quello che conta. 685 pagine.

Facendo un piccolo calcolo, quest’anno spero di leggere 3196 pagine. Ah, e vorrei anche approfondire la conoscenza di Philiph Roth e Zadie Smith e iniziare a leggere qualcosa di Joyce Carol Oates e Ali Smith.

Si accettano trasfusioni di tempo libero, anche usato.

Il silenzio del lottatore

fdhdhCome dicevo nello scorso post su Sofia si veste sempre di nero, è solo grazie a due raccolte scritte da autori italiani che quest’estate mi sono avvicinata al mondo del racconto, e soprattutto per puro caso.  Infatti, ho iniziato “Il silenzio del lottatore” di Rossella Milone (edito da minimum fax) credendo che fosse un romanzo e l’ho finito con qualche dubbio: tutti e dieci i racconti sono in prima persona, ma la voce femminile potrebbe non essere sempre la stessa.

La narrazione segue un ordine cronologico che inizia dall’infanzia di un’esperta cacciatrice di lucertole e passa per svariate relazioni (più o meno stabili) di amore e amicizia e qualche matrimonio fino ad un epilogo tragicomico nella ritiro spirituale di una guru nelle questioni di coppia.  I racconti sono scritti in maniera eccezionale: toccano le varie fasi della crescita di una donna e riflettono il suo rapporto con il mondo e soprattutto con gli altri.

 

 

 

Ho apprezzato particolarmente la capacità della Milone di descrivere certi sentimenti quasi impercettibili e difficilmente etichettabili che si sperimentano durante una relazione sentimentale:

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Un altro esempio di sensazioni imbottigliate in questa raccolta è la luccicanza, che è anche il titolo di uno dei racconti:

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Nella mia mente è subito nata un’associazione spontanea con la smarginatura evocata da Elena Ferrante per descrivere cose e persone nella sua quadrilogia L’Amica Geniale: non so spiegare il vero collegamento tra di essi ma li sento in qualche modo vicini.

Il 31 dicembre del 1958 Lila ebbe il suo primo episodio di smarginatura. Il termine non è mio, lo ha sempre utilizzato lei forzando il significato comune della parola. Diceva che in quelle occasioni si dissolvevano all’improvviso i margini delle persone e delle cose.

Tratto da “L’amica geniale”, primo volume

Rossella Milone non è solo autrice che, come afferma sul suo sito,  ama “Alice Munro, le montagne e le meduse” ma anche promotrice di un Osservatorio sul racconto che si chiama “Cattedrale”, un’organizzazione che segnala e potenzia la presenza delle raccolte sul mercato editoriale italiano. Grazie al sito dell’organizzazione sono riuscita a trovare qualche spiegazione alla mia inspiegabile diffidenza per questo genere:

Probabilmente, la difficoltà intrinseca – e ormai cristallizzata – di comunicare, vendere, recensire, e quindi pubblicare racconti, risiede soprattutto nell’aspetto ontologico del racconto, nella sua sostanza primitiva: scriverli è difficile, è difficile leggerli (e quindi comunicarli, recensirli, pubblicarli, venderli…). Genere di difficile definizione, dalle tante facce, poliedrico e multiforme, spesso scivoloso e intricato, tanto da richiedere una certa forma di impegno per avvicinarsi al suo cuore segreto, il racconto è certamente meno rassicurante di un romanzo che, invece, porta il lettore mano nella mano lungo tutto il tragitto della sua narrazione. La disciplina della brevità, la selezione essenziale e puntigliosa, diventa, per il racconto, lo strumento di una concezione estetica, quella che Eudora Welty definisce come il divenire plasmante della materia narrativa che connatura questo tipo di scrittura: “Il racconto, nel modo in cui è giunto a ciò che sta sulla pagina, è qualcosa di appreso, per mezzo della sfida che esso stesso poneva e della fatica impiegata a raccoglierla”. Tutti aspetti che tendono a imprigionare il racconto in un recinto sospetto e pericoloso, poco adatto al mercato editoriale.

Tratto dalla sezione “Il progetto” del sito di Cattedrale

Il prossimo passo penso che sarà  vincere la diffidenza per Alice Munro: accetto volentieri consigli nei commenti sul come e sul perchè non abbandonare per la terza volta “Chi ti credi di essere?”.

Post-it #3: Love Is Not All by Edna St. Vincent Millay

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New Year’s Day, the Palace Hotel, St.Moritz, 1959, by Jakob Tuggener

Love is not all: it is not meat nor drink
Nor slumber nor a roof against the rain;
Nor yet a floating spar to men that sink
And rise and sink and rise and sink again;
Love can not fill the thickened lung with breath,
Nor clean the blood, nor set the fractured bone;
Yet many a man is making friends with death
Even as I speak, for lack of love alone.
It well may be that in a difficult hour,
Pinned down by pain and moaning for release,
Or nagged by want past resolution’s power,
I might be driven to sell your love for peace,
Or trade the memory of this night for food.
It well may be. I do not think I would.

Sofia si veste sempre di nero

Due cose mi hanno sempre ispirato diffidenza in libreria: autori italiani e raccolte di racconti. I primi, per una combinazione distruttiva di traumi scolastici e classica esterofilia italiana congenita; i secondi, perchè mi lasciano (quasi) sempre insoddisfatta. Fortunatamente, questa fase di razzismo letterario sta lentamente scomparendo grazie a due autori pubblicati da minimum fax: Paolo Cognetti e Rossella Milone.

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Ho corteggiato Paolo Cognetti per molto tempo: prima, scaricando un estratto di Sofia si veste sempre di nero sul mio Kindle come aperitivo alla lettura; poi, ho atteso l’occasione di comprarlo e infine acquistato invece un’altra raccolta, New York Stories, un’antologia di racconti su New York nella quale la sua voce fa da ponte tra uno scrittore e l’altro. Quest’estate ho finalmente incontrato Sofia.

 

 

 

 

“Vuoi sapere i miei programmi per Natale?”, dice la ragazza. “Farmi molti bagni e dormire molto. Svegliarmi tardi e andare a letto presto. Non rispondere al telefono, rileggere Moby Dick, drogarmi fino agli occhi e cercare di dimenticare che è Natale. Ti basta così?”

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Sofia è la protagonista di dieci racconti ma rimane sempre la stessa: nasce in anticipo, cresce in fretta, vuole morire subito. Ma poi rinasce, grazie ad una zia anticonvenzionale, e continua a vivere qui e là, rincorrendo un sogno. Le piace fare lunghi bagni caldi, ha una passione per i pirati, lascia dietro di sé una scia di fidanzati, qualcuno più rimpianto di altri.

È che sembri piccolina, sta dicendo Leo quando riemergi, ma io l’ho capito come sei. Sei come un GAS, ti espandi appena puoi farlo. È per questo che ho bisogno di tracciare un confine, lo capisci? Uno lo impara, a stare da solo. È una cosa che si può imparare, e si riesce perfino a stare bene. Ma se adesso ti lascio entrare tu invadi tutto lo spazio che c’è.

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Sofia è un personaggio femminile sfaccettato e realistico che per metà si racconta da solo e per metà ci viene raccontato da Pietro, un aspirante scrittore. Il fatto che un narratore maschile – e soprattutto, un autore maschile- riesca a costruire una personalità così complessa purtroppo rappresenta  un’eccezione alla regola. Non soltanto nel mondo letterario, ma anche e prevalentemente  nel mondo cinematografico esistono esempi di storie che hanno come voce narrante un protagonista maschile innamorato di una ragazza un po’ strana, come succede in Sofia.

Per questa categoria di personaggi è stata coniata una sigla in inglese nel 2005: MPDG, ovvero “Manic Pixie Dream Girl“, una ragazza-dei-sogni-un-po’-matta-ed-un-po’-magica. L’esempio tipico è Zooey Deschanel in New Girl o Yes Man: carina e stravagante, sconvolge la vita dell’imbranato personaggio maschile senza mai dare segni di avere una psiche complessa, o perlomeno abbastanza complessa per essere interessante e quindi degna di attenzione da parte degli sceneggiatori.

Manic Pixie Dream Girl (MPDG) is a stock character type in films. Film critic Nathan Rabin, who coined the term after observing Kirsten Dunst’s character in Elizabethtown(2005), describes the MPDG as “that bubbly, shallow cinematic creature that exists solely in the fevered imaginations of sensitive writer-directors to teach broodingly soulful young men to embrace life and its infinite mysteries and adventures.”[1] MPDGs are said to help their men without pursuing their own happiness, and such characters never grow up (…).

Tratto dalla voce di Wikipedia

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Fortunatamente Sofia si lascia scivolare addosso i cliché come l’acqua sporca dopo un amato bagno: solo durante una liaison con un regista lascerà che l’idea di sé innamori più della sua vera essenza e da questo equivoco amoroso nascerà un disastro cinematografico che ha come protagonista Laila, una cameriera di Brooklyn con un cappello da pirata.

Laila era una di quelle persone per cui il senso della vita non sta nelle cose che fai, ma nelle persone che incontri.

Ma Sofia non è una macchietta ma una persona vera, in carta ed ossa che preferisce alimentare sogni eretici che sogni erotici e che sembra condividere lo stesso destino segnato dall’incomprensione di Clementine Kruczynski di Eternal Sunshine of the Spotless Mind:

Too many guys think I’m a concept, or I complete them, or I’m gonna make them alive. But I’m just a fucked-up girl who’s lookin’ for my own peace of mind; don’t assign me yours.

Troppi ragazzi pensano che io sia un’idea o che possa completarli o che possa riuscire a ridargli la vita. Ma io sono solo una ragazza incasinata che cerca la sua pace mentale: non mi scaricare addosso la tua.

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I dieci racconti che compongono la racconta descrivono inoltre gli anni Settanta e le famiglie borghesi esiliate in periferia, la vita da coinquilina e il lutto, New York e il matrimonio, ed il fatto che Sofia sia il centro della narrazione avvicinano il libro ad un romanzo a puntate: il compromesso che ci voleva per avvicinarmi al piccolo ma prezioso mondo dei racconti.

Tutte le illustrazioni sono di Sara Herranz.

A seguire, la recensione di “Il silenzio del lottatore” di Rossella Milone.

 

Uccidiamo Penelope

Sono dell’idea che Penelope dovrebbe essere uno dei personaggi letterari più odiati di sempre. Riflettendoci, sono arrivata alla conclusione che la sua presenza nell’Odissea non è che un chiaro espediente per far tornare a casa quello sciagurato di Ulisse che altrimenti non avrebbe avuto ragione di tornare alla noiosa Itaca e sarebbe ancora per mare oggi, a fare slalom tra le trivelle, sognando l’Isola dei Famosi.

(Perdonami Omero, so che saprai chiudere un occhio. O due.)

rrrrIronia a parte, Penelope incarna seriamente un modello comportamentale femminile che oggigiorno oserei definire controproducente e obsoleto. Per evitare allora che Simone de Beauvoir e Katherine Pankhurst si rivoltino nella tomba alla sola idea che nel 2016 vi siano ancora donne che facciano ancora  la tela a casa (e quest’espressione racchiude ogni occasione nella quale una donna desidera vivere una vita attiva e qualcosa o qualcuno glielo impedisce), è necessario portare alla luce delle personalità-guida che, seppur fittizie, sappiano bilanciare questo lato ancestrale della femminilità con degli esempi più indipendenti e coraggiosi. La libertà è femmina, e la controversia pure.

 

Paradossalmente, le eroine più irriverenti nascono quasi sempre da una penna maschile. A partire dall’addio di Nora in Casa di Bambola di Ibsen, le donne che hanno fatto della fuga la loro cifra stilistica sono innumerevoli. Per alcune di loro, l’addio è diventato una raison d’être mentre per altre un faux-fuyant verso una realtà apparentemente diversa.

Francesismi a parte, al primo caso appartengono due semi-sconosciuti di nome Jacqueline e Holly.

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Edie Sedgwick

Non ero veramente me stessa se non nel momento in cui fuggivo. Gli unici bei ricordi che ho sono ricordi di fughe vere e proprie o di scappatelle da casa.

Jacqueline è la misteriosa protagonista di “Nel caffé della gioventù perduta” di Patrick Modiano. Figlia di una ballerina del Moulin Rouge, viene schedata ancora adolescente dai poliziotti parigini per vagabondaggio per le strade del Quartier Latin. Le sue scappatoie si traducono presto in qualcosa di più serio: dall’abbandono scolastico fino alla rottura con il marito, Jacqueline si nutre di abbandoni e li consacra come unici veri momenti felici della sua vita perchè nessun uomo le provoca lo stesso batticuore, la stessa perversa ebbrezza del lasciarsi alle spalle un luogo, un incontro, una vita.

Voleva evadere, fuggire sempre più lontano, rompere brutalmente con la vita quotidiana, per respirare all’aria aperta. E c’era poi, di tanto in tanto, quel timore panico di fronte alla prospettiva che le comparse che ti sei lasciato alle spalle potessero ritrovarti e venirti a chiedere conto di qualunque cosa. Bisognava nascondersi per sfuggire a quei ricattatori sperando un giorno definitivamente fuori dalla loro portata.

holly

La stessa inquietudine caratterizza anche Holly Golightly, la protagonista di “Colazione da Tiffany”. Conosciuta con il volto di Audrey Hepburn a livello mondiale, Holly condivide con Jacqueline un passato turbolento ed un passato altrettanto incerto: sposa in giovane età nel più profondo Midwest, da ladra di uova diventa starlette newyorkese con molta più fatica di quanto il film lasci immaginare. Nell’originale novella di Truman Capote, le sue mean reads (letteralmente “paturnie” in italiano) non sono una scusa per fare capolino tra le vetrine di uno dei negozi di gioielleria più celebri della Grande Mela ma delle vere e proprie crisi depressive, le dolorose conseguenze di una serie di traumi emotivi passati.

I don’t want to own anything until I know I’ve found the place where me and things belong together. I’m not quite sure where that is just yet. But I know what it’s like.”(…) “It’s like Tiffany’s (…). It calms me down right away, the quietness and the proud look of it; nothing very bad could happen to you there, not with those kind men in their nice suits, and that lovely smell of silver and alligator wallets.

L’atmosfera ovattata e familiare di Tiffany, la gentilezza ed il decoro delle commesse ed i gioielli inscalfibili irradiano una luce terapeutica che ricorda le luce verde del molo di Daisy del Grande Gatsby: la speranza, seppur vana, di un orgiastico futuro. Ma il destino di Holly è ben lontano dalla versione di Audrey Hepburn: la vera Holly è una wild thing, uno spirito libero che non può essere addomesticato e che per ragioni di popolarità cinematografica  viene ingabbiato nella rete domestica da George Peppard emntre nel romanzo continua la sua inarrestabile fuga, noncurante addirittura dell’amato gatto spelacchiato.

Never love a wild thing. (…) You can’t give your heart to a wild thing: the more you do, the stronger they get.Until they’re strong enough to run into the woods. Or fly into a tree. Then a taller tree. Then the sky. That’s how you’ll end up, Mr. Bell. If you let yourself love a wild thing. You’ll end up looking at the sky.

Al secondo caso appartengono invece due matrioske in fuga, Otilia e Amy.

otilia

Vivian Maier

Otilia è la niña mala di Mario Vargas Llosa, il cui alter ego Ricardo assiste impotente alle trasformazioni da ragazzina cilena a spia cubana, da nobildonna inglese a prostituta giapponese. In “Avventure della ragazza cattiva” , Otilia dissemina le più varie versioni di se stessa, tutte fedeli all’originale e infedeli al suo uomo, porto sicuro e sepolto da tonnellate di bagagli e maschere.

Faceva sempre in modo di farmi sapere, o meglio, indovinare, che c’erano uno o più segreti nella sua vita di tutti i giorni, una dimensione della sua esistenza cui io non avevo accesso e dalla quale poteva scatenarsi in qualsiasi momento un terremoto che avrebbe mandato all’aria la nostra convivenza.

gonegirl

L’infedeltà è anche la scintilla che fa scoppiare la polveriera coniugale di Amy, la gone girl di Gillian Flynn. Fin da piccola in lotta con la sua doppelganger romanzesca creata dai genitori – un ideale di perfezione sotto forma di libro per bambini-, Amy crede di trovare in Nick una via di fuga ma il loro matrimonio non sarà che l’ennesima gabbia dalla quale la fuga  le costerà un sacco di sangue e di preparazione certosina. Le versioni di Amy sono molteplici e spesso in contrasto tra loro: figlia viziata, giornalista fallita, fidanzata perfetta, moglie insoddisfatta, assassina spregiudicata..

It’s a very difficult era in which to be a person, just a real, actual person, instead of a collection of personality traits selected from an endless Automat of characters.
And if all of us are play-acting, there can be no such thing as a soul mate, because we don’t have genuine souls. It had gotten to the point where it seemed like nothing matters, because I’m not a real person and neither is anyone else. I would have done anything to feel real again.

Rinunciare alla propria identità in favore di un’altra è la vera fuga da se stessi. Ritrovarsi, poi, risulta quasi impossibile perchè la sovrapposizione d’identità necessita di una lavoro di scavo interiore che pochi archeologi sono disposti a intraprendere. Così, molte donne rimangono prive d’identità, in presa al più cupo spaesamento che trasforma ogni luogo in un non-luogo: l’angoscia di ogni partenza corrisponde alla paura dell’eterno non-ritorno di se stessi in se stessi, il rischio assoluto a cui si va incontro quando si scommette su una ipotetica versione di sè. Forse però vale la pena perdersi se l’alternativa è l’immobilità bugiarda di una tela che nel guadagnare tempo, spreca la vita.

 

 

Le citazioni fanno riferimento a:

  • Nel caffè della gioventù perduta di Patrick Modiano (2010), tradotto da Irene Babboni per Einaudi
  • Breakfast at Tiffany’s, Truman Capote, 1958
  • Avventure della ragazza cattiva di Mario Vargas Llosa (2007), tradotto da Glauco Felici per  Einaudi
  • Gone girl, Gillian Flynn, Phoenix Fiction, 2014

Tutte le lettere d’amore sono ridicole

Tutte le lettere d’amore sono

ridicole.

Non sarebbero lettere d’amore se non fossero

ridicole.

Anch’io ho scritto ai miei tempi lettere d’amore,

come le altre,

ridicole.

Le lettere d’amore, se c’è l’amore,

devono essere

ridicole.

Ma dopotutto

solo coloro che non hanno mai scritto

lettere d’amore

sono

ridicoli.

Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo

senza accorgermene

lettere d’amore

ridicole.

La verità è che oggi

sono i miei ricordi

di quelle lettere

a essere ridicoli.

(Tutte le parole sdrucciole,

come tutti i sentimenti sdruccioli,

sono naturalmente

ridicole).

Così si conclude “Lettere alla fidanzata” (Adelphi, 1988),  la raccolta epistolare a cura di Antonio Tabucchi  tra il celebre poeta portoghese Fernando Pessoa   e la sua amata  Ophélia Queiroz. Questa sconsolata, ironica poesia (come sembrano essere tutte le poesie di Pessoa) è stata scritta nel 1935, anno della sua morte, mentre le più celebri “cartas de amor”, quelle ridicole, risalgono al 1920 e al 1929.

 

50a9b-ophelinaL’incontro tra i due coincide con il colloquio della giovane Ophélia nella stessa ditta di import-export nella quale il poeta  era corrispondente commerciale, la Félix, Valladas & Freitas di Lisbona. Pessoa la riceve di persona  in ufficio con la sua  caratteristica dose di stramba galanteria d’altri tempi : Ophélia, stia attenta al buco nelle scale e al signor Valladas: è un po’ rude. Da quel giorno comincia un sottile corteggiamento accolto con piacere dalla neo-dattilografa  e  punteggiato di note di gelosia da parte di Fernando nei confronti dei colleghi che vorrebbero volentieri  depositare baci sul collo solitario della giovane.

 

 

 

La prima lettera coincide con un improvviso blackout nella fabbrica. Fernando approfitta dell’occasione, deposita un biglietto sulla scrivania della giovane nel quale prega Ophélia di restare. La giovane è turbata ma decide di restare. Fernando torna con un lume recita inaspettatamente la dichiarazione di Amleto a Ofelia:

Oh! Cara Ofelia!Maneggio male i miei versi, ho poca arte per misurare i miei sospiri, ma ti amo all’estremo! Oh, fino all’ultimo estremo, credilo!

O dear Ophelia, I am ill at these numbers. I have not art to reckon my groans, but that I love thee best, oh, most best, believe it.

E poi, “mi bacio appassionatamente, follemente”. A questa occasione si riferiscono i versi:

Fiquei doido, fiquei tonto.

Meus beijos foram sem conto,

Apertei-a contra mim,

Aconcheguei-a em meus braços,

Embriaguei-me de abraços.

Fiquei tonto e foi assim.

 

Dá-me beijos, dá-me tantos

Que, enleado nos teus encantos,

Preso nos abraços teus,

Eu não sinta a própria vida,

Nem minha alma, ave perdida

No azul-amor dos teus céus.

(…)

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( Sono ammattito, sono instupidito/ non ho potuto contare i miei baci,/ l’ho stretta contro di me,/ l’ho allacciata fra le mie braccia,/ mi sono ubriacato di abbracci, / sono ammattito, ed è stato così.//                          Dammi dei baci, dammene tanti/ che avvinto nei tuoi incanti,/ prigioniero degli abbracci tuoi, io non senta neppure la stessa vita/ né l’anima mia, uccello perduto/ nell’azzurro-amore dei tuoi cieli.

Traduzione di Antonio Tabucchi)

 

 

In seguito comincia il “namoro“, ovvero il periodo che precede il fidanzamento ufficiale che, in questo caso, mai avverrà poiché nell’Ottobre del 1920 Pessoa verrà colpito da una violenta crisi depressiva che lo costringerà a rompere con Ophélia. Il loro carteggio dura circa un anno e riprende nel 1929 per interrompersi definitivamente nel 1931.

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Durante entrambi i periodi, il poeta portoghese professa una dedizione per la giovane ed in particolare per il suo aspetto: essendo più piccola sia anagraficamente (avevano dodici anni di differenza) che fisicamente, dato che Ophélia era minuta e magrolina, Pessoa si riferisce a lei come a un “Bebè”, “Bebezinho” o con una serie di vezzeggiativi e diminutivi come “Ophélinha” o “amorzinho“. Il loro codice amoroso è quindi ricco di nomignoli ma anche di indicazioni spazio-temporali poiché le lettere d’amore avevano una sua funzione: fissare appuntamenti  e incontri volanti, da una parte all’altra di Lisbona ed in base agli impegni di entrambi, specialmente quando Ophélia cambia lavoro.

Inoltre, Pessoa non ama scrivere lettere, nonostante siano lettere d’amore, poiché è abituato a scriverle per comunicare con “persone alle quale non interessa parlare”, mentre nei confronti di Ophélia egli prova il continuo desiderio di comunicare:

Vorrei parlarti, averti sempre accanto, e che non fosse necessario scriverti lettere – le lettere sono segni di separazione – o almeno segni, per la necessità di scriverle, del fatto di essere lontani.

In ogni caso, il loro carteggio, nonostante la brevità delle lettere del poeta, è decisamente intenso. Ecco qualche esempio:

Piccola Ophelinha,

non so se mi vuole bene, ma le scrivo esattamente per questo motivo. (…)

Dalla lettera che sancirà la separazione tra i due nel 1920:

Il Tempo, che invecchia i volti e i capelli, invecchia anche, ma ancora più rapidamente, gli affetti violenti. La maggior parte della gente, per la sua stupidità, riesce a non accorgersene, e crede di continuare ad amare perchè ha contratto abitudine a sentire se stessa che ama. Se non fosse così, non vi sarebbe al mondo gente felice. Le creature superiori, tuttavia, sono private della possibilità di codesta illusione, perchè non possono credere che l’amore sia duraturo, nè, quando sentono che esso è finito, si sbagliano interpretando come amore la stima, o la gratitudine, che esso ha lasciato.

Queste cose fanno soffrire, ma poi il dolore passa. Se la stessa vita, che è tutto, passa, perchè non dovrebbero passare l’amore, il dolore e tutte le cose che sono solo parti della vita?

E ancora:

Terribile Bebè,

mi piacciono le sue lettere, che sono dolci dolci, e mi piace lei che è pure dolce dolce.

È bon bon, ed è vespa, ed è miele, che è delle api e non delle vespe, e tutto va bene, e il Bebè deve scrivermi sempre, anche se io non scrivo, che è sempre, e io sono triste, e sono matto, e nessuno mi vuol bene, e perché dovrebbero volermene, proprio così, e siamo daccapo, e credo proprio che oggi le telefono, e vorrei baciarla sulla bocca, con passione e ghiottoneria e mangiare i bacini che vi sono nascosti, e poggiarmi sulla sua spalla e arrivare alla tenerezza dei colombi, e chiederle scusa, ma scusa per finzione, e ricominciare molte volte, e punto e daccapo per poi rincominciare, […] e ora la smetto perché sono matto e lo sono sempre stato di natura, che è come dire dalla nascita, e mi piacerebbe che tu, Bebè, fossi una bambola, e io farei come un bambino, ti spoglierei, e il foglio finisce qui e pare impossibile che tutto questo sia stato scritto da un essere umano, invece l’ho scritto io.

Fernando

July 27, 1954, New York, NY

Vivian Mayer, 1954, New York

Le complicazioni che turbano il loro rapporto non solo solamente legate alle convenzioni sociali degli Anni Venti  che li obbligano  a incontri clandestini e a vivere  nella paura di uno scandalo ma soprattutto l’impegno di Pessoa come poeta. La redazione della sua opera lo consuma, lo tormenta, e sarà forse la sua condanna. Anche le lettere saranno contaminate dalla sua vena letteraria, come sottolinea l’apparizione sporadica di qualche eteronimo (in particolare l’ingegnere Álvaro de Campos) e la costante malinconia:

 Sono così solo, così solo di baci.

Forse è proprio il “ridicolo” della poesia iniziale a rendere la lettura di questa corrispondenza così intima un  “peccato doloroso e inutile“, come dice Tabucchi nella postfazione: spesso, infatti, confesso di essermi sentita  in imbarazzo, colta con le mani nel sacco, o meglio, con l’occhio dietro la serratura, a spiare un amore che non mi appartiene, con tutte “le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni” (Montale) che caratterizzano tutte le storie d’amore.

Il cattivo gusto della banalità, l’ovvietà del sentimento più puro trasforma il lettore in involontario voyeur. Questa posizione ha però un suo lato positivo:  permette di  realizzare che il poeta in generale, non solo uno dei più grandi poeti portoghesi di tutti i tempi come Pessoa, non è solo un confezionatore di versi ma anche un essere umano che vive la stessa stupidità dei sentimenti che gli altri esseri umani prova: il suo dono sta nel renderli, appunto, meno stupidi, meno ridicoli.

Forse per un’altra donna sarebbe stato possibile avere un amore con Fernando. Ma io lo capivo. Lo capivo e mi piaceva. Non avvertivo neppure ciò che poteva esserci di ridicolo nelle sue eccentricità.

(Dichiarazione di Ophélia Queiroz su Fernando Pessoa)