Una lista di buoni propositi (letterari)

Anno nuovo, libri nuovi. Se nel 2016 ho letto (addirittura!) 57 tomi secondo Goodreads, dubito che in questo 2017 ce la farò. Infatti, quest’anno mi voglio dedicare a qualcosa di emotivamente, fisicamente, intellettualmente impegnativo: i big books.

Ecco una lista disordinata dei libri che mi aspettano sul comodino e che lo stanno facendo quasi ribaltare:

  1. A Little Life, Hanya Yanagihara, Picador, 2015

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Acquistato quasi un anno fa a Londra, è rimasto in attesa di tempi migliori: sono 736 pagine in inglese, dato che ho voluto averlo subito invece di aspettare la traduzione italiana, uscita in questi giorni per Sellerio a cura di Luca Briasco.

2. Libertà, Jonathan Franzen, tradotto da Silvia Pareschi, edito da Einaudi nella collana Numeri Primi, 2012

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Si tratta di un delitto recente: comprato alle bancarelle di Via Po a Torino a metà prezzo, conta ben 622 pagine di drammi famigliari. Ho letto Le Correzioni da molto tempo ormai e mi è venuta un po’ di nostalgia, tutto qui.

3.Rayuela, Julio Cortázar, edizioni Alfaguara, 2013

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Iniziato sul Kindle, ho pensato che fosse uno di quei libri che devi avere per sfogliarlo, fare orecchie, sottolineare e vivere. E’ uno dei regali di Natale più belli che ho ricevuto. In lingua originale, nell’edizione commemorativa del 50esimo anniversario, 632 pagine.

4. Life after Life, Kate Atkinson, Back Bay Books, 2013

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Preso due anni fa alla splendida Strand di New York, usato. Me l’avevo consigliato una commessa su non so quali miei indicazioni. Nel frattempo è stato tradotto in italiano da A. Storti e pubblicato dalla casa editrice Nord. 521 pagine.

5. Il piccolo amico, Donna Tartt, Rizzoli, traduzione di  I. Landolfi, G. Maccari, 2014

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Il classico acquisto impulsivo di non so neanche quanto tempo fa. Semplicemente, ho già letto tutto della Tartt (non che sia molto, scrive un libro ogni dieci anni circa) e non volevo perdermi il suo romanzo d’esordio, anche se i toni macabri non mi hanno mai spinto a iniziarlo. Però lo stile sarà sempre l suo, ed è questo quello che conta. 685 pagine.

Facendo un piccolo calcolo, quest’anno spero di leggere 3196 pagine. Ah, e vorrei anche approfondire la conoscenza di Philiph Roth e Zadie Smith e iniziare a leggere qualcosa di Joyce Carol Oates e Ali Smith.

Si accettano trasfusioni di tempo libero, anche usato.

Uccidiamo Penelope

Sono dell’idea che Penelope dovrebbe essere uno dei personaggi letterari più odiati di sempre. Riflettendoci, sono arrivata alla conclusione che la sua presenza nell’Odissea non è che un chiaro espediente per far tornare a casa quello sciagurato di Ulisse che altrimenti non avrebbe avuto ragione di tornare alla noiosa Itaca e sarebbe ancora per mare oggi, a fare slalom tra le trivelle, sognando l’Isola dei Famosi.

(Perdonami Omero, so che saprai chiudere un occhio. O due.)

rrrrIronia a parte, Penelope incarna seriamente un modello comportamentale femminile che oggigiorno oserei definire controproducente e obsoleto. Per evitare allora che Simone de Beauvoir e Katherine Pankhurst si rivoltino nella tomba alla sola idea che nel 2016 vi siano ancora donne che facciano ancora  la tela a casa (e quest’espressione racchiude ogni occasione nella quale una donna desidera vivere una vita attiva e qualcosa o qualcuno glielo impedisce), è necessario portare alla luce delle personalità-guida che, seppur fittizie, sappiano bilanciare questo lato ancestrale della femminilità con degli esempi più indipendenti e coraggiosi. La libertà è femmina, e la controversia pure.

 

Paradossalmente, le eroine più irriverenti nascono quasi sempre da una penna maschile. A partire dall’addio di Nora in Casa di Bambola di Ibsen, le donne che hanno fatto della fuga la loro cifra stilistica sono innumerevoli. Per alcune di loro, l’addio è diventato una raison d’être mentre per altre un faux-fuyant verso una realtà apparentemente diversa.

Francesismi a parte, al primo caso appartengono due semi-sconosciuti di nome Jacqueline e Holly.

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Edie Sedgwick

Non ero veramente me stessa se non nel momento in cui fuggivo. Gli unici bei ricordi che ho sono ricordi di fughe vere e proprie o di scappatelle da casa.

Jacqueline è la misteriosa protagonista di “Nel caffé della gioventù perduta” di Patrick Modiano. Figlia di una ballerina del Moulin Rouge, viene schedata ancora adolescente dai poliziotti parigini per vagabondaggio per le strade del Quartier Latin. Le sue scappatoie si traducono presto in qualcosa di più serio: dall’abbandono scolastico fino alla rottura con il marito, Jacqueline si nutre di abbandoni e li consacra come unici veri momenti felici della sua vita perchè nessun uomo le provoca lo stesso batticuore, la stessa perversa ebbrezza del lasciarsi alle spalle un luogo, un incontro, una vita.

Voleva evadere, fuggire sempre più lontano, rompere brutalmente con la vita quotidiana, per respirare all’aria aperta. E c’era poi, di tanto in tanto, quel timore panico di fronte alla prospettiva che le comparse che ti sei lasciato alle spalle potessero ritrovarti e venirti a chiedere conto di qualunque cosa. Bisognava nascondersi per sfuggire a quei ricattatori sperando un giorno definitivamente fuori dalla loro portata.

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La stessa inquietudine caratterizza anche Holly Golightly, la protagonista di “Colazione da Tiffany”. Conosciuta con il volto di Audrey Hepburn a livello mondiale, Holly condivide con Jacqueline un passato turbolento ed un passato altrettanto incerto: sposa in giovane età nel più profondo Midwest, da ladra di uova diventa starlette newyorkese con molta più fatica di quanto il film lasci immaginare. Nell’originale novella di Truman Capote, le sue mean reads (letteralmente “paturnie” in italiano) non sono una scusa per fare capolino tra le vetrine di uno dei negozi di gioielleria più celebri della Grande Mela ma delle vere e proprie crisi depressive, le dolorose conseguenze di una serie di traumi emotivi passati.

I don’t want to own anything until I know I’ve found the place where me and things belong together. I’m not quite sure where that is just yet. But I know what it’s like.”(…) “It’s like Tiffany’s (…). It calms me down right away, the quietness and the proud look of it; nothing very bad could happen to you there, not with those kind men in their nice suits, and that lovely smell of silver and alligator wallets.

L’atmosfera ovattata e familiare di Tiffany, la gentilezza ed il decoro delle commesse ed i gioielli inscalfibili irradiano una luce terapeutica che ricorda le luce verde del molo di Daisy del Grande Gatsby: la speranza, seppur vana, di un orgiastico futuro. Ma il destino di Holly è ben lontano dalla versione di Audrey Hepburn: la vera Holly è una wild thing, uno spirito libero che non può essere addomesticato e che per ragioni di popolarità cinematografica  viene ingabbiato nella rete domestica da George Peppard emntre nel romanzo continua la sua inarrestabile fuga, noncurante addirittura dell’amato gatto spelacchiato.

Never love a wild thing. (…) You can’t give your heart to a wild thing: the more you do, the stronger they get.Until they’re strong enough to run into the woods. Or fly into a tree. Then a taller tree. Then the sky. That’s how you’ll end up, Mr. Bell. If you let yourself love a wild thing. You’ll end up looking at the sky.

Al secondo caso appartengono invece due matrioske in fuga, Otilia e Amy.

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Vivian Maier

Otilia è la niña mala di Mario Vargas Llosa, il cui alter ego Ricardo assiste impotente alle trasformazioni da ragazzina cilena a spia cubana, da nobildonna inglese a prostituta giapponese. In “Avventure della ragazza cattiva” , Otilia dissemina le più varie versioni di se stessa, tutte fedeli all’originale e infedeli al suo uomo, porto sicuro e sepolto da tonnellate di bagagli e maschere.

Faceva sempre in modo di farmi sapere, o meglio, indovinare, che c’erano uno o più segreti nella sua vita di tutti i giorni, una dimensione della sua esistenza cui io non avevo accesso e dalla quale poteva scatenarsi in qualsiasi momento un terremoto che avrebbe mandato all’aria la nostra convivenza.

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L’infedeltà è anche la scintilla che fa scoppiare la polveriera coniugale di Amy, la gone girl di Gillian Flynn. Fin da piccola in lotta con la sua doppelganger romanzesca creata dai genitori – un ideale di perfezione sotto forma di libro per bambini-, Amy crede di trovare in Nick una via di fuga ma il loro matrimonio non sarà che l’ennesima gabbia dalla quale la fuga  le costerà un sacco di sangue e di preparazione certosina. Le versioni di Amy sono molteplici e spesso in contrasto tra loro: figlia viziata, giornalista fallita, fidanzata perfetta, moglie insoddisfatta, assassina spregiudicata..

It’s a very difficult era in which to be a person, just a real, actual person, instead of a collection of personality traits selected from an endless Automat of characters.
And if all of us are play-acting, there can be no such thing as a soul mate, because we don’t have genuine souls. It had gotten to the point where it seemed like nothing matters, because I’m not a real person and neither is anyone else. I would have done anything to feel real again.

Rinunciare alla propria identità in favore di un’altra è la vera fuga da se stessi. Ritrovarsi, poi, risulta quasi impossibile perchè la sovrapposizione d’identità necessita di una lavoro di scavo interiore che pochi archeologi sono disposti a intraprendere. Così, molte donne rimangono prive d’identità, in presa al più cupo spaesamento che trasforma ogni luogo in un non-luogo: l’angoscia di ogni partenza corrisponde alla paura dell’eterno non-ritorno di se stessi in se stessi, il rischio assoluto a cui si va incontro quando si scommette su una ipotetica versione di sè. Forse però vale la pena perdersi se l’alternativa è l’immobilità bugiarda di una tela che nel guadagnare tempo, spreca la vita.

 

 

Le citazioni fanno riferimento a:

  • Nel caffè della gioventù perduta di Patrick Modiano (2010), tradotto da Irene Babboni per Einaudi
  • Breakfast at Tiffany’s, Truman Capote, 1958
  • Avventure della ragazza cattiva di Mario Vargas Llosa (2007), tradotto da Glauco Felici per  Einaudi
  • Gone girl, Gillian Flynn, Phoenix Fiction, 2014

I ragazzi Burgess

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Alcune letture sono rischiose avventure mentre altre sono semplicemente lapalissiane conferme. Una dei queste speciali retrouvailles è The Burgess Boys di Elizabeth Strout , un romanzo genuinamente eccezionale come il suo predecessore di cui vi ho parlato qualche tempo fa nell’articolo “L’egoismo di Olive Kitteridge”

 

 

 

Shirley Falls, un piccolo paesino del Maine, the whitest state in the country,  è la destinazione prediletta di un’inaspettata onda migratoria causata dalla crisi politica somala. Improvvisamente cominciano ad apparire donne in burqua, uomini scuri che predicano un Dio che non si può nemmeno disegnare, bambini che non capiscono le loro maestre, ragazzi che non avevano mai visto delle scale mobili. La paura dello straniero scatena reazioni opposte: accettazione, aiuto, comprensione da una parte mentre dall’altra scatena l’isteria e il razzismo che sfocerà in conseguenze disastrose. Parallelamente, proprio quando la diaspora in miniatura dei fratelli Burgess, iniziata con la morte della madre e conclusasi con la divisione dei due fratelli Bob e Jim, newyorkesi d’adozione, da Susan sembra essere terminata, ecco che Susan richiama i due fratelli nel paesino della loro terribile infanzia per aiutarla. In questo momento convergono le due trame parallele del romanzo, la questione sociale e quella famigliare (che no verrà svelate per non rovinarvi il gusto della lettura), amalgamate fra loro nella maniera più sorprendente che si possa immaginare dal genio di Elizabeth Strout.

 

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People in the sun by Edward Hopper

La questione sociale ruota intorno ad una domanda breve ma complessa: how do cultures deal with distress? Ovvero, come fanno i conti le persone provenienti da  culture differenti con l’angoscia, la sofferenza, il pericolo, l’afflizione? Le due culture in questione sono quella americana, rappresentata dalla famiglia Burgess e dalla popolazione di Shirley Falls e dalla cultura somala, rappresentata da Abdikarim portavoce di un popolo lontano dalla sua culla. La differenza sostanziale che salta all’occhio del lettore è legata alla reazione sociale che americani e somali hanno rispetto ad un evento che sconvolge la quotidianità: l’americano è solo, spalleggiato a malapena dalla sua famiglia e dai suoi amici mentre intorno alle vittime somale si stringe l’intera comunità, una rete di sicurezza solida ed un abbraccio caloroso. Quest’esempio racchiude perfettamente la distanza tra il mondo occidentale e quello orientale, un confronto pacato che è uno dei temi più riusciti nel romanzo che risulta straordinariamente attuale.

Un’altra tematica altrettanto rischiosa è quella del pregiudizio e della cosiddetta xenofobia, la paura dello straniero.

And yet, Bob, who had lived for years in New York, Bob, who’d had a brief career (…) defending criminals of various colors and religions (until the stress of the courtroom forced him to appellate work), Bob, who believed in the magnificence of the Constitution and the rights of the people, all people, to life, liberty, and the pursuit of happiness, Bob Burgess, after the tall man with the tasseled scarf turned town a side street of Shirley Falls – Bob thought, ever so fleetingly but he thought it: Just as long as there aren’t too many of them.

Sinceramente, non mi aspettavo una tematica del genere dalla Strout, scrittrice americana che ambienta i suoi scritti sempre nello stesso luogo (lo stesso Maine della signora Kitteridge) e che predilige tematiche più intime ma forse è proprio l’estrema umanità che caratterizza i suoi personaggi e le loro vicende a rendere The Burgess Boys un’opera così riuscita. I personaggi sono veri, palpabili, le loro emozioni sono autentiche,  loro difetti evidenziati ma accettati perchè reali, possibili. Il pregiudizio e la solitudine sono bacchettati con intransigenza ma compresi fino alla sorgente da cui scaturiscono: la paura, il sentimento più naturale del mondo, il motore che muove tutti gli esseri viventi, nel bene e nel male.

It is not “good” or “bad” that interests me as a writer, but the murkiness of human experience and the consistent imperfections of our lives. To present this in the form of fiction hepls us make our humanness more acceptable to the reader; that is my wish. (…) The mutability of life – our losses, our loves, our fears – can at times be overwhelming. I hope that reading The Burgess Boys makes this changeability become, if even only for a few moments, more manageable.

(Da Going through old papers di Elizabeth Strout)

Come si fa a non amarla?

Al limite della notte

Flaubert diceva che lo stile è tutto e non potrei più essere in disaccordo con lui. Ovviamente, andare contro il buon Gustave non giova molto alla mia reputazione ma tant’è: lo stile secondo me è un esercizio, un mezzo attraverso il quale filtrare dei contenuti, delle idee, delle immagini. Lo stile da solo non può tutto, dev’essere sapientemente dosato. Queste ed altre riflessioni sono scaturite dalla lettura di “Al limite della notte” di Michael Cunningham (Bompiani, 2010).

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Conoscevo già quest’autore statunitense perchè avevo letto con molto piacere “Le Ore”, il suo romanzo più famoso, e avevo vista anche la sua trasposizione cinematografica con Meryl Streep, Julianne Moore e Nicole Kidman.” Le Ore” mi era sembrato un romanzo denso, intensamente lavorato ma a suo modo illuminante, soprattutto per quanto riguarda la rappresentazione della psiche umana come nel caso della desperate housewife Laura Brown e della follia intermittente che caratterizzò gli ultimi anni di Virginia Woolf. Invece, devo ammettere che “Al limite della notte” mi ha deluso un po’.

 

La storia predilige gli amanti tragici, i Gatsby e le Anna K., li perdona, anche mentre li schiaccia. Ma Peter, una piccola sagoma in un angolo dozzinale di New York, dovrà perdonarsi da sé, dovrà schiacciarsi da sé perché a quanto pare nessuno lo farà per lui.  (…) Lui, come tutte le moltitudini che non verranno ricordate, sta aspettando educatamente un treno che con ogni probabilità non arriverà mai.

 

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Peter si muove per le stanze del suo loft newyorkese, tra le strade della sua metropoli d’adozione, negli angoli del suo ufficio, nell’illusione della sua unicità, perdendo occasioni che potrebbero dare una svolta alla sua vita che viaggia ormai da anni su binari più che sicuri. Cunningham sceglie di raccontare la storia più vecchia del mondo , quella una famiglia infelice a modo suo e dell’illusione che un battito d’ala di una farfalla in Brasile possa cambiare la nostra vita, qui e ora, e cerca disperatamente di insaporirla, ricadendo nel solito gioco delle parti: l’uomo in crisi di mezz’età, irrequieto e vago, la moglie bella ma appassita, il tradimento dietro l’angolo. Il finale è inaspettato ma non meno amaro del previsto.  Un bell’esercizio di stile, quello di vagheggiare definendo l’arte “un tentativo di squarciare la scorza mortale e di vedere ciò che sfolgora dall’altra parte” e racchiudere l’insensatezza della vita umana nell’aforisma “su un paiolo fesso andiamo battendo ritmi da far ballare gli orsi mentre vorremmo intenerire le stelle”, ma non credo che basti  a tenere in piedi un romanzo. “Al limite della notte” barcolla, saltella, zoppica ma non convince, non dopo aver assaggiato la meravigliosa complessità di “Le Ore”.

Scusa Michael e scusa anche a te, Gustave.

 

E se Hitler avesse vinto la Seconda Guerra Mondiale?

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“Il vecchio Adolf che si vocifera sia in manicomio chissà dove, a consumare i suoi giorni nella paresi senile. Sifilide del cervello, che risale ai tempi in cui era un povero barbone, in quel di Vienna… giaccone nero, biancheria sporca, pensioncine d’infimo ordine. Ovviamente, era l’ironica vendetta di Dio, uscita da qualche film muto. Quell’uomo orrendo abbattuto da una sozzura interiore, lo storico flagello della depravazione umana. E l’aspetto più terribile era che l’attuale Impero Tedesco era un prodotto di quel cervello. Dapprima un partito politico, poi una nazione, poi la metà del mondo. (…) Quelle idee avevano contagiato ormai un’intera civiltà e, come spore maligne, i ciechi, biondi finocchi nazisti stavano sciamando dalla Terra verso gli altri pianeti, spargendo il contagio.”

Un a sensazione di orrore e incredulità. Una leggera nausea e senso di vertigine. Ecco cosa si prova a leggere “La svastica sul sole” di Philip K. Dick, il romanzo da cui sono tratte queste righe. Probabilmente più conosciuto per le sue opere di fantascienza tra cui “Il cacciatore di androidi” o “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” da cui è stato liberamente tratto il film “Blade Runner”, Dick dà prova di una fantasia fuori dal comune cimentandosi nella riscrittura della storia che tutti conosciamo, facendole prendere delle pieghe a dir poco inquietanti. L’ucronia ricreata dall’autore vede l’impero nazista e i suoi alleati giapponesi non solo vincere la Seconda Guerra Mondiale ma anche sottomettere l’intero pianeta e spartirselo: ai nazisti spetta l’Europa intera, l’Africa, il Medio Oriente, la parte settentrionale dell’America Latina e la East Coast Statunitense mentre il “misero” bottino di guerra giapponese comprende Asia e Isole del Pacifico (Australia inclusa), il resto dell’America Latina e una striscia della West Coast americana. Inoltre, l’impero tedesco, ferito nell’orgoglio dal mancato neocolonialismo del tardo Ottocento che l’aveva lasciato a mani vuote, punta le sue astronavi su Marte nel folle intento di conquistare l’intero Sistema Solare. A dividere le due nuove superpotenze troviamo gli Stati delle Montagne Rocciose, un’incerta terra di mezzo per fuggiaschi,  e un abissale divario culturale. Mentre i nazisti esportano l’ideale della razza ariana, i giapponesi impongono le loro regole comportamentali sui “rozzi” americani fino a farci percepire una sorta di “razzismo verso i bianchi” nelle zone dove l’influenza nipponica è più forte. A aggravare la situazione sopraggiungono i disordini all’interno del Reich, nel quale personalità importanti lottano fra loro per emergere. Dick ne riporta un profilo agghiacciante:

 

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Goring, caricatura del gruppo russo Kukryniksy

«Il Grassone [Göring], così chiamato per la sua corporatura, in origine coraggioso asso dell’aviazione nella Prima Guerra Mondiale, ha fondato la Gestapo e ha rivestito incarichi di grande potere nel governo prussiano.(…) L’immagine sinistra di quest’uomo in toga con i suoi leoncini, proprietario di un immenso castello pieno di trofei e di capolavori artistici, è certamente accurata. Treni merci carichi di oggetti preziosi rubati arrivavano direttamente alla sua residenza privata, anche in tempo di guerra, a dispetto delle esigenze militari.(…) Herr Göring è il simbolo di una mentalità di rapina, che si serve del potere come strumento per ottenere la ricchezza personale. Una mentalità primitiva, anche volgare, ma l’uomo è intelligente, forse il più intelligente fra tutti i capi nazisti. Oggetto delle sue manovre: autoglorificazione, sul modello degli antichi imperatori.

 

«Poi Herr J. Goebbels. Da giovane ha avuto la polio. In origine era cattolico. Brillante oratore e scrittore, mente agile e fanatica, arguto, educato, cosmopolita. Molto attivo con le signore. Elegante. Colto. Molto capace. Lavora moltissimo; attività dirigenziale quasi frenetica. Si dice che non riposi mai. È un personaggio molto rispettato. Può essere affascinante, ma pare abbia una vena di fanatismo senza paragone con quella di altri nazisti. La tendenza ideologica ricorda il punto di vista gesuitico e medievale, esacerbato da un nichilismo postromantico tedesco. Viene considerato il solo, vero intellettuale della Partei. Da giovane aveva ambizioni di drammaturgo. Pochi amici. Non è amato dai subordinati, ma tuttavia è il più raffinato prodotto di molti fra i migliori elementi della cultura europea. La sua ambizione non nasconde l’autogratificazione, bensì la ricerca del potere per il potere. Tendenza organizzativa nel senso più classico dello stato prussiano.

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Sylvester Groth come Goebbels nel film di Tarantino “Bastardi senza gloria”

      

  (…)  «Baldur von Schirach. Già comandante della Gioventù Hitleriana. È considerato un idealista. Ha una figura attraente, ma viene ritenuto poco esperto e poco preparato. Crede sinceramente negli obiettivi della Partei. Si è assunto la responsabilità di prosciugare il Mediterraneo e di bonificare vastissime zone coltivabili. Ha anche mitigato le crudeli politiche di sterminio etnico in terra slava, all’inizio degli anni cinquanta. Si è rivolto direttamente al popolo tedesco per ottenere che gli slavi sopravvissuti potessero continuare a esistere in regioni chiuse, tipo riserve, nel cuore dell’Europa. Ha richiesto la cessazione di certe forme di eutanasia e di sperimentazioni mediche, ma senza successo.

      «Il dottor Seyss-Inquart. Già nazista austriaco, adesso responsabile della politica nei possedimenti coloniali del Reich. È forse l’uomo più odiato in tutto il Reich. Si dice che abbia istigato quasi tutte, se non proprio tutte, le misure repressive a danno dei popoli conquistati. Ha lavorato con Rosenberg a progetti ideologici tipo più allarmante, come il tentativo di sterilizzare l’intera popolazione russa sopravvissuta dopo la cessazione delle ostilità. Non esistono conferme certe, quanto a questo, ma è considerato uno dei maggiori responsabili della scelta dell’olocausto nel continente africano, creando in tal modo le premesse per un vero e proprio genocidio della popolazione negra. Forse è il più vicino, come temperamento, al primo Führer, Adolf Hitler.»

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Mappa del mondo in “Una svastica sul sole”

La coralità del romanzo permette di esplorare il nuovo assetto geopolitico da diversi punti di vista, tra i quali quello dell’americano medio costretto a piegare la sua indole pratica e spontanea alla cerimoniosità dei giapponesi, l’ebreo in fuga verso gli Stati delle Montagne Rocciose, un italiano che rimpiange i tempi del Duce (questi tipi umani ci sono anche su Facebook, niente di nuovo) e che nasconde un segreto misterioso, il funzionario dagli occhi a mandorla e troppo potere nelle mani, un imprenditore svedese che sembra non avere niente a che fare con questa storia e la giovane istruttrice di judo che fugge dalla quotidianità verso l’ignoto e che nella sua folle corsa s’imbatte in un libro che le cambia la vita. Il volume in questione s’intitola “La cavalletta non si alzerà più”, firmato da un certo Abendensen e che contiene una sconvolgente possibilità: e se Roosevelt e Tugwell avessero vinto la Seconda Guerra Mondiale?

 

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Philip K. Dick

Il punto di vista di Dick non è solamente incredibilmente interessante  ma anche più controverso del previsto: accanito pacifista, da giovane rifiuta apertamente la politica maccartista che lo vuole obbligare a sospendere i suoi studi universitari per combattere la Guerra in Corea. Alla luce di questi dettagli biografici, “La svastica sul sole” non può essere solamente considerato come un semplice “E se..?” ma necessita di un’interpretazione che tenga conto della complessità della mente del suo creatore. Non è forse vero che la vittoria degli Stati Uniti ha influenzato il corso nella storia portando a conseguenze meno disastrose della realtà provvisoria del romanzo ma ugualmente sconvolgenti? Basti pensare alla Guerra Fredda e a tutte le guerre che sono state combattute in nome della “libertà” nella seconda metà del Novecento e alla nascita della cultura di massa con i suoi lati positivi e negativi. La forza di quest’autore risiede forse proprio in questo: la capacità di costruire finzioni che ci avvicinano paradossalmente alla nostra realtà.

Per chi volesse approfondire, dal romanzo è stata tratta un’omonima serie televisiva prodotta da Amazon.

Il nuovo romanzo-gomitolo di Anne Tyler

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Illustrazione di Giselle Potter dal sito del Baltimora Magazine

Uno degli aspetti più interessanti della letteratura è il fatto che riesca ad avvicinare mondi diametralmente opposti tra loro. Per esempio, l’ultimo romanzo americano che ho letto inizia con le vicende di un Nestbeschmutzer. Il romando in questione è A Spool of Blue Thread (Una spola di filo blu, Guanda, 2015) e la parola così arzigogolata di sopra è un termine che esiste solo nella lingua tedesca e che letteralmente si traduce come “l’insozzatore del nido”.

 Il Nestbeschmutzer è un individuo che insozza il suo nido: la famiglia, la chiesa, la patria, il partito, insomma il nucleo a cui appartiene. Sporcare il nido è un’azione indegna, perfino gli animali stanno attenti a non farlo. (…) Tutto quello che danneggia il nido o distoglie dalla sua sacralità per i tedeschi è una profanazione. *

Il sipario del dramma famigliare si apre su Denny, il Nestbeschmutzer della famiglia Whitshank, la protagonista dell’ultimo romanzo di Anne Tyler. La sua chiamata ai genitori, Red e Abby, e l’annuncio della sua omosessualità sconvolge l’equilibrio famigliare già dalle prime pagine del romanzo, creando un pretesto per raccontare la sua turbolenta adolescenza e la sua misteriosa vita adulta. Le luci si accendono e vengono pian piano illuminati anche gli altri componenti della famiglia: Red, padre di famiglia ed erede della mania da tuttofare che caratterizzava suo padre e il padre di suo padre prima di lui, Abby, madre che si aggrappa al sua passato prima come hippie e poi come assistente sociale continuando a prendersi cura di qualunque cosa trovi nel raggio micidiale del suo abbraccio consolatore, Amanda e Jeanny,  le due sorelle maggiori, e  Stem e la servizievolissima moglie Nora. I personaggi-attori mettono in scena  un viaggio a ritroso nel tempo per conoscere la famiglia Whitshank, dalla generazione presente ai loro bisnonni, per esplorare le dinamiche centrifughe e centripete che disgregano e uniscono il nucleo famigliare.

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Hodgins House di  Edward Hopper

La peculiarità di questa rappresentazione è il protagonismo dell’apparente scenografia:  l’immensa casa di famiglia, la tipica villa americana con tanto di portico in legno e prato maniacalmente curato, è fondamentale per comprendere la vicenda poiché la lenta deriva dei suoi abitanti si traduce nella suo fatale deterioramento. La prima parte del romanzo si concentra proprio su questo e ne rappresenta paradossalmente la parte finale: i problemi che Red ed Abby iniziano ad accusare a causa dell’età li portano a trascurare la casa e a provocare il disfacimento della tanto millantata unione famigliare.

La seconda parte è un piccolo salto indietro nel tempo  all’inizio della relazione di Abby e Red, una delle leggende della famiglia che, come tutte le fantomatiche “storie tramandate per generazione dai Whitshank”  è decisamente meno interessante del previsto. Una delle caratteristiche di questi ultimi è infatti un insano attaccamento agli episodi di vita di parenti e antenati  che costituiscono il fondamento della loro “stirpe”: futili episodi di vita di parenti o antenati che vengono ingigantiti dall’ironia e dalla ripetizione fino a diventare vere e proprie leggende dell’epica famigliare. I Whitshank infatti sembrano tenere più all’apparenza che alla sostanza: i legami che dovrebbero unirli sono deboli, sfilacciati dalla incomprensione e allentati dalla lontananza, ma essi sono troppo intenti a recitare la parte della famigliola americana che si ostina a considerarsi speciale per sfuggire agli schemi della normalità, unita da sempre e come sempre agli occhi degli amici, dei vicini, del mondo, per rendersene davvero conto.

Le delusioni, tuttavia, sembravano sfuggire allo sguardo della famiglia. Era un’altra delle loro peculiarità: avevano una grande capacità di fingere che tutto fosse a posto. O forse non era affatto una peculiarità. Forse era solo un’ulteriore dimostrazione che i Whitshank non erano per nulla speciali, da nessun punto di vista.

Se la prima e la seconda parte risultano eccessivamente prolisse e decisamente poco coinvolgenti, il secondo atto costituisce una piacevole sorpresa. Linnie e Mae e Junior, i genitori di Red, sono gli Adamo ed Eva della stirpe degli Whitshank e la loro relazione risulta ancora più complicata di quella dei progenitori biblici: il loro legame non si basa sull’amore ma sulla menzogna e sull’ignavia. La loro unione è frutto del caso e non di quel tipo di fato provvidenziale delle commedie romantiche ma del cattivo tipo di destino, di un karma subdolo che li condanna alla vita di coppia. A quest’unione forzata ( e non intendo matrimonio forzato, leggere per credere!) si aggiunge l’intraprendenza insaziabile di Junior, il prototipo di uomo americano mediamente povero che sgomita e sbraita per guadagnarsi un  posto nella buona società del tempo.

Oh, sempre, sempre una questione di “noi” e “loro”. (…) E si dava per scontato che fosse colpa sua, perchè viveva in una nazione nella quale in teoria avrebbe tranquillamente potuto raggiungere la sufficienza. Non c’era nulla a impedirglielo, o forse qualcosa c’era, solo non riusciva a capire esattamente cosa. C’era sempre qualche minuscolo dettaglio nel vestiario, o nell’accento, che lo escludeva, come se guardasse sempre dall’esterno.

Le certezze del lettore, alimentate dalle credenze dei personaggi del libro, crollano a picco: la gloria dei Whitshak ha le sue radici nella miseria, nel dolore, nel disprezzo più assoluto.  La storia assume allora nuove sfumature e si trasforma in una ricerca forsennata degli indizi che potrebbero averci illuso fin dall’inizio, ogni litigio viene analizzato sotto una luce diversa:  quella del dottore che cerca nel paziente malato le radici del suo male. Così come gli innamorati alla fine di una relazione tendono a riportare a galla i ricordi felici ed analizzarli con rigore scientifico per isolare i primi segni di disamore, il lettore chiude il libro e ripercorre mentalmente la narrazione dall’inizio per stanare ogni dettaglio contraddittorio.

Il finale, in questo caso ed in pochi altri, salva il romanzo da una critica interamente negativa. La vera pecca di questo libro è però lo stile: nonostante Anne Tyler sia una scrittrice adorata in patria, personalmente trovo la sua maniera di scrivere assolutamente piatta, ai limiti della banalità. Si tratta di una giudizio che faccio fatica ad esprimere perchè mi sembra inaccettabile che una vincitrice del premio Pulitzer e candidata al Man Booker Prize 2015 con questo romanzo possa avere questo genere di mancanza quindi sospetto che dietro l’eccessiva semplicità si nasconda una traduzione poco accurata. In tutti i casi, mi ritrovo a farmi dei nemici potenti :i giudici del Pulitzer, del Man Booker Prize e la Tyler stessa o i traduttori incazzati della Guanda? That is the question. In ogni caso, tra problemi di stile ed episodi poco convincenti,  la storia tende a perdersi in se stessa, aggrovigliandosi come il filo blu menzionato nel titolo.  Forse perchè arrivata al ventesimo romanzo, anche le penne più allenate cominciano a pesare.

* Citazione da “Piccolo viaggio nell’anima tedesca” di Vanna Vannuccini e Francesca Predazzi (Feltrinelli, 2004), un saggio molto interessante di cui spero di parlarvi a breve.

 

Ogni cosa è illuminata (pt.1)

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Rileggere lo stesso libro dopo anni porta ad esiti discordati: se ci è piaciuto fin dall’inizio allora magari scopriremo dei dettagli che ce lo faranno amare ancora di più oppure non ritroveremo proprio quelle piccolezze che ce l’avevano fatto apprezzar e delusi arriveremo alla conclusione che si cambia mentre i libri rimangono gli stessi; se non ci è piaciuto allora c’è la possibilità di rivalutarlo in chiave positiva oppure abbandonarlo sull’apposito scaffale dedicato ai libri che a tutti piacciono e a me no ( nel mio trovate Anna Frank, che non sono mai riuscita a finire. Shame on me.). La rivalutazione è forse uno degli aspetti più interessanti della rilettura perchè sottolinea il cambiamento che avviene in una persona e la stretta correlazione tra il momento della lettura e la realtà psicologica del lettore, oltre al fatto che spesso la scelta di un romanzo è completamente casuale e quindi potrebbe accordarsi allo stato d’animo del lettore come opporsi e spingerlo a reagire. (La magia dei libri, se ne parlerebbe per ore.)

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L’autore mentre si gratta

Tornando a noi, questa riflessione scaturisce dalla rilettura di un romanzo su cui avevo avuto tante aspettative al momento della prima lettura perchè scritto da uno dei miei scrittori preferiti ovvero Jonathan Safran Foer, entrato di prepotenza nella mia classifica del cuore grazie a Molto forte, incredibilmente vicino, suo secondo romanzo. Ricordo che avevo particolarmente amato la disperata ricerca newyorkese di Oskar, la caratterizzazione di personaggi e la capacità dello scrittore di rendere il profondo disagio psicologico che si riversa su un bambino al momento della morte di un famigliare grazie a dei piccoli dettagli che agli occhi di un lettore distratto sarebbero sfuggiti, lasciandolo orfano di uno dei piaceri più grandi della prosa di Foer: la sensibilità e il dolore racchiusi nei piccoli gesti che sono più grandi di qualsiasi reazione disperata, grida e pianti. Inoltre, ero rimasta profondamente affascinata dalla quantità di neologismi inseriti come parole assolutamente comuni nel corso della narrazione, risultati della genialità del piccolo Oskar e del suo buffo carattere. Tra quei neologismi c’è il verbo scucciolare, che uso con orgoglio ancora oggi nell’accezione di fare le coccole (”Posso scucciolare il tuo cane?”). Questa manipolazione linguistica che ha arricchisce la personalità del protagonista conferendogli una nota di stranezza mi ha ricordato il padre di Natalia Ginzgburg in Lessico Famigliare ed i suoi insulti fantasiosi ( Non fate sbrodeghezzi! Non fate potacci!).

Molto-forte-incredibilmente-vicino-Biglietto-da-visita-Oskar

Ora capite perchè lo amo.

Contentissima di sapere che Foer aveva scritto un altro romanzo prima delle avventure di Oskar, mi sono lanciata nella lettura con un mare di aspettative, una più alta dell’altra: mi aspettavo tutte le cose che avevo già visto in Molto Forte ma in chiave leggermente diversa, sì, ma non troppo diversa, mi raccomando, ti prego non mi deludere, ok Jonathan? E invece Johnny mi aveva deluso profondamente. Il tema era lo stesso: una ricerca impossibile, dei compagni di viaggio bizzarri e un sarcasmo che mascherava una tristezza sotterranea. Peccato che gli sbalzi temporali mi sono subito sembrati troppo improvvisi, la trama principale e quella secondaria poco interessanti e scollegate tra loro, l’operazione linguistica troppo intensa. Insomma, ne rimasi delusa e lo lessi col broncio. Col broncio, fino alla fine, ma senza capire nulla.

everythingisilluminatedHo ripreso in mano il romanzo una settimana fa, spinta dalla quantità immensa di recensioni entusiaste che leggevo sul web ormai da anni, rassegnata alla convinzione che il non sei tu, sono io funziona anche con i romanzi (Soprattutto con i romanzi. Di solito sei tu e basta.) Mi sono impegnata questa volta, liberandomi da tutte le aspettative e pronta a deporre il romanzo al fianco della mia ormai sconsolata e solitaria copia di Anna Frank sullo scaffale maledetto dal mio personalissimo gusto letterario. E invece l’ho rivalutato come Standard & Poor’s rivaluta i paesi emergenti da uno sconsolante B- ad un glorioso AA+. Perchè il problema ero io, insomma. Il problema erano le mie aspettative che non volevano altro che rileggere lo stesso romanzo che avevo amato con una copertina diversa. Invece, Ogni cosa è illuminata ha un’anima completamente diversa da quella di Molto forte, incredibilmente vicino. E’ un romanzo epistolare, una fantasiosa ricostruzione storica, un’antologia di storie d’amore condita da picchi di sarcasmo e depressioni liriche in cui la voce dell’autore fantastica sulle avventure dei suoi antenati, inventando un albero genealogico molto bizzarro e quella di Alexander detto Sasha, guida turistica dell’improvvisato viaggio di Safran in Ucraina che si occupa di ricostruire il loro viaggio. L’aspetto più divertente e innovativo del romanzo è l’ennesima operazione linguistica, ancora più straordinaria dei neologismi infantili di Oskar: l’intera parte epistolare del romanzo, scritta da Alexander, è resa nel suo inglese sgrammaticato da studente ucraino di prima classe. Quella che a prima vista potrebbe sembrare una traduzione all’altezza del traduttore automatico di Google è in realtà una delle parti più interessanti e divertenti del romanzo. Si tratta di una vera e propria sfida per il lettore che deve cercare di andare oltre il significato letterale delle parole e sostituire a vocaboli inventati, antichi o completamente sbagliati le loro versioni corrette o attuali. Alcuni esempi:

un uomo inseminativo = un uomo virile

avere requiem = riposare

fabbricare le Z = dormire

bussarsi il petto = essere profondamente dispiaciuti, scusarsi

sfagiolare qualcuno/qualcosa = adorare, amare alla follia ma platonicamente

ogni cosa è illuminata = ogni cosa è chiara, ho capito tutto

Un altro aspetto divertente del romanzo è la satira degli ebrei. Foer fa risalire la nascita del suo primo antenato conoscibile al 1791, quando un carro trainato da un cavallo imbizzarrito cade nel letto del fiume Brod e tra i resti della carrozza e dei suoi bagagli appare una bambina appena nata. La notizia scuote lo shtetl, la comunità ebraica, che si appresta a scrivere l’avvenuto sull’infinito Libro degli antecedenti e ad affidare la bambina alle cure dell’ex-usuraio Yankel. Il sarcasmo di Foer, ebreo anch’egli, è messo sul vittimismo storico degli ebrei, dalla loro disorganizzazione che provoca pasticci e malintesi e sulle loro usanze antiche ma paradossali. Ecco un estratto dal Libro degli antecedenti:

IL MULINO

Fu così che nell’undicesimo anno di un secolo da molto trascorso, il Popolo Eletto (cioè noi) fu guidato fuori dall’Egitto dal nostro capo, allora-saggio Mosè.Nella fretta della fuga non bastò il tempo per far lievitare il pane e Iddio nostro Signore, possa il Suo nome ispirare lieti pensieri, il Quale, nel cercare la perfezione in ogni Sua creatura, non voleva un pane imperfetto, disse al Suo Popolo (noi, non loro): NON SFORNATE ALCUN PANE CHE SIA SECCOM SCIPITO, DI CATTIVO SAPORE O CAUSA DI DISPERATA COSTIPAZIONE. Ma il Popolo Eletto aveva molta fame, e ci provammo con un po’ di buon lievito. Quel che fu sfornato da parte nostra fu meno che perfetto, anzi per vero dire secco, scipito, di cattivo gusto e causa di molte merdose ritenzioni, e Iddio, possa il suo nome abitare sempre le nostre non screpolate labbra, si arrabbiò molto. E’ a causa di questo peccato dei nostri avi che un membro dello shtetl è rimasto ucciso nel mulino ogni anno, dalla sua fondazione del 1713.

Ma tra una sinagoga ambulante e un sacco di personaggi buffi, il romanzo mostra anche il suo lato serio riportando alla luce la strage nazista in Ucraina, lasciando da parte le ricostruzioni storiche fantasiose e tornando alla cruda realtà. Gli ebrei venivano chiusi nelle sinagoghe alle quali veniva dato fuoco oppure obbligati a fornire il nome di un ebreo della comunità, pena la fucilazione immediata. Così come in Molto forte, incredibilmente vicino era stato affrontato il bombardamento di Dresda, Foer attinge dalla storia contemporanea per controbilanciare la sua sfrenata immaginazione con la dura realtà storica.

E il Generale ha sparato a mia sorella. Io non riuscivo a guardarla, ma ricordo il rumore quando è caduta per terra. Ancora sento quel rumore quando le cose cadono a terra. Tutte le cose.

Tornano, in ordine sparso, tutte le peculiarità dello stile di Foer, inclusa la meravigliosa caratterizzazione dei personaggi: Alexander è un finto spaccone che aspira a fare il commercialista in America per salvare suo fratello dalla violenza del padre, Yankel è un vecchio deluso dall’amore e dalla vita che rinasce e muore in pace grazie a Brod, la capostipite dell’immaginaria famiglia di Safran, uno dei personaggi migliori del romanzo a mio parere.

Brod scoprì seicentotredici tristezze, ciascuna assolutamente unica, ciascuna una singola emozione, non più simile a qualunque altra tristezza di quanto fosse simile all’ira, all’estasi, ai sensi di colpa e alla frustrazione. Tristezza dello Specchio. Tristezza degli Uccelli Addomesticati. Tristezza di Esser Triste di fronte a un Genitore. Tristezza dell’Umorismo. Tristezza dell’Amore senza Scioglimento.

E poi ci sono Safran, lo storpio che diventa un Don Giovanni tra le vedove dello shtetl alla precoce età di dieci anni grazie alla sua mano morta (lo stesso fascino derelitto di Florentino Ariza di L’amore ai tempi del colera) e la sua ultima amante, la Zingarella, e la sua nuova sposa, Zasha. E come dimenticare la pestifera cagna Sammy Davis Junior Junior, violenta compagna di viaggio di Jonathan, Alexander e Nonno Alexander affetto da una cecità psicosomatica che non gli impedisce di guidare l’auto per conto del figlio, gestore dei Viaggi Tradizione, la sfortunata compagnia di viaggi che Jonathan sceglie per rintracciare la donna che salvò suo nonno dai nazisti. Una carrellata di personaggi indimenticabili, situazioni spassose ed altre agghiaccianti, una doppia trama profondamente complessa in un romanzo che non dovete sottovalutare. L’ho già atto io per voi, e avete visto com’è andata a finire: avevo torto marcio.

(Ora mi tocca rileggere anche quella palla al piede di Anna Frank. Non ce la posso fare).

Nella seconda parte di Ogni cosa è illuminata analizzerò la versione cinematografica realizzata nel 2005 con Elijah Wood. Stay tuned!

La trama del matrimonio

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The Dreamers, Bernardo Bertolucci, 2003.

Ci si può arrabbiare con un libro per esser stato diverso da come ce l’eravamo aspettato? Io credo di sì e so che anche Pennac sarebbe d’accordo con me, aggiungendo un undicesimo comandamento ai suoi Diritti del lettore. Quello che mi aspettavo da La trama del matrimonio (The Marriage Plot nella versione in lingua originale che ho letto) era una storia d’amore complessa, con una trama articolata e dei personaggi interessanti: Jeffrey Eugenides, autore dei più celebri Le Vergini Suicide e Middlesex, sembrava capace di raggiungere questi tre obiettivi ma, girata l’ultima pagina del romanzo, mi sento di dire che Eugenides è un bravissimo arciere che tira frecce sghembe, mancando il centro del bersaglio per eccesso.

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L’egoismo di Olive Kitteridge

Come si riconosce un classico? In genere dalla polvere sulla copertina.

Scherzi a parte, ultimamente mi sono chiesta cosa faccia guadagnare ad un romanzo l’ambitissima etichetta dorata di classico della letteratura e soprattutto cosa significhi per me in quanto lettrice. Cos’è un classico per me? Un romanzo che parla dei grandi temi della vita attraverso episodi singolari ma allo stesso tempo universalmente condivisibili. Ecco perchè credo che Olive Kitterdige sia destinato a diventare un classico della letteratura americana.

974Elizabeth Strout sceglie il microcosmo di Crosby, una cittadina del Maine, come sfondo per una serie di capitoli-racconti che sono autonomi, cronologicamente disposti ma soprattutto accumunati da un fil rouge: il rimando a Olive Kitteridge, scorbutica insegnante di matematica che con la sua presenza o influenza su altri personaggi viene progressivamente descritta da diversi punti di vista, senza mai arrivare ad averne un ritratto preciso ma incessantemente nebuloso e contraddittorio. Attorno ad Olive gravitano il marito dal cuore d’oro, Henry, ed il sensibilissimo figlio Christopher, componendo così un nucleo famigliare apparentemente semplice che rivela alcune crepe al suo interno: Olive non sopporta la dolcezza di Henry e sabota tutti i suoi gesti affettuosi e Christopher è spesso umiliato psicologicamente e fisicamente dalla madre, scontenta del suo atteggiamento apatico e della sua misera media scolastica.

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