Lo scrittore e il suo doppio: Pennac e Melaouah

Nel mondo esistono due tipi di persone: quelli che si entusiasmano a vedere il loro scrittore preferito e quelli che si entusiasmano  a  incontrare il traduttore del loro scrittore preferito. Sfortunatamente per voi, io appartengo al secondo tipo quindi  al Salone del libro di Torino  mi sono fiondata all’incontro “Lo scrittore e il suo doppio: Daniel Pennac conversa con la sua traduttrice Yasmina Melaouah”. Pennac è stato al Salone tutto venerdì 19 maggio ed ha partecipato ad altri due incontri per parlare di come educare alla lettura e del suo nuovo romanzo, “Il caso Malaussène. Mi hanno mentito” (Feltrinelli) . Ma come vi dicevo, non siete dei ragazzi fortunati.

In una stanzetta troppo piccola per la folla che l’attende, Ilide Carmignani (traduttrice di Luis Sepúlveda, R. Bolaño J. L. Borges e molti altri) coordina una serie di eventi sulla traduzione letteraria intitolati “L’Autore Invisibile”, tra cui quello tra Pennac e la sua traduttrice. Quando arrivo, la  fila ha già superato l’angolo quindi mi metto in coda, complimentandomi mentalmente per non aver sottovalutato la popolarità di Pennac (e, forse solo per oggi, della traduzione!). Al momento di entrare si consumano i soliti minuti di panico (ancora cinque persone poi basta, finito, addio per sempre) ma per fortuna riesco a sedermi (ndr, mi siedo a caso e capito di fianco a Gina Maneri, traduttrice dallo spagnolo e dal catalano, e Claudia Zonghetti, traduttrice dal russo, e per poco non mi viene un infarto, ma questa è un’altra storia).

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“Buongiorno a tutti, mi dispiace non parlare italiano, è una vergogna, dopo tutti questi anni..voilà, c’est tout ce que je sais dire en italian!” esordisce Pennac. La prima (lecitissima) domanda che Ilide gli pone è: perchè sei tornato a scrivere? E con estremo candore, lo scrittore risponde ” è semplicissimo, perchè ne avevo voglia!”. E continua: ” Avevo voglia di ritrovare la “scrittura malausseniana”, quel tipo di scrittura che avevo inventato per il ciclo dei Malaussène e che non è la mia scrittura abituale. E poi, volevo tornare a dar fastidio a Yasmina!”. E tra le risatine generali, ecco il primo segno della complicità tra i due. In un mondo ideale, tra gli scrittori e i loro traduttori c’è sempre un rapporto speciale, una sorta di alchimia. Questo caso, quello dell’accoppiata Pennac-Melaoauh, è unico: oltre ad essere colleghi e amici, Yasmina percepisce una percentuale di diritti d’autore sulle vendite dei libri di Pennac (un’eccezione nel nostro paese ma una regola all’estero!).  Pennac coglie ogni occasione per tessere le lodi della sua traduttrice: dice che in ogni sua pagina “ci sono almeno dodici problemi e Yasmina li risolve sempre tutti”. Un chiaro esempio è il titolo del terzo libro del ciclo dei Malaussène, in francese “La petite marchande de prose” e letteralmente, in italiano, “La piccola venditrice di prose”. Yasmina invece opta per un titolo fedele ma più leggero: la Prosivendola.

Per Yasmina, infatti, tradurre rappresenta anche “l’obbligo di prendersi delle libertà”. Tornare a tradurre Pennac per lei è stata una gioia ma anche il ritorno ad una scrittura – e quindi ad una traduzione- consapevole, costellata di “difficoltà intelligenti”.  Quella di Pennac è infatti una “spontaneità costruita” che si basa su salti di registro, giochi di parole e metafore. Ed è proprio sulla metafora che Pennac fa una lunga digressione, citando uno scrittore americano Raymond Chandler come maestro, e affermando che una metafora ben utilizzata permette di evitare lunghe descrizioni o analisi psicologiche. In traduzione, la metafora è l’emblema della libertà del traduttore che deve tradurre il senso della metafora, non l’immagine. A  proposito, Pennac cita una frase che era stata detta durante un incontro e che aveva messo d’accordo il pubblico: “Il traduttore è lo psicanalista dello scrittore”. E aggiunge che allora sarebbe anche ora di pagare gli scrittori come gli psicanalisti!

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“Scrivere per me è immergermi nella lingua francese, così come il traduttore s’immerge nella lingua madre” aggiunge. Con gli altri traduttori conserva un rapporto di amicizia e si preoccupa delle traduzioni più difficili, come quelle dei suoi libri in giapponese. Per esempio, in giapponese a volte “manca l’equivalente nelle piccolezze”: per esempio, mentre in Francia si chiamano i fratelli per nome, in Giappone bisogna chiamarli “Fratello”, senza utilizzare il nome proprio. Pennac è affascinato da queste differenze e sente che “ogni lingua è l’espressione di una sensibilità diversa”. E’ incuriosito dalle espressioni intraducibili e invita i traduttori presenti in sala a mandargli una mail con tutte le parole che non hanno un equivalente esatto in altre lingue da aggiungere al suo Dizionario delle parole intraducibili.

Pennac però pensa che non sarebbe un buon traduttore e l’unico consiglio che si sente di dare ai giovani traduttori è “ama la tua lingua e sii libero”. Durante la sua vita è stato scrittore e insegnante e ammette di aver tratto beneficio da entrambi i mestieri: “Non c’è niente che ti faccia più venire voglia di scrivere di un plico di verifiche da correggere e non c’è niente che ti faccia più venire voglia di entrare in classe di non riuscire a scrivere”. In classe  ha sempre ritrovato una sorta di “energia vitale” che ispirava la sua scrittura che chiama “ciclotimica”: “quando scrivo, scrivo tutto il giorno, ovunque. Quando non riesco, non c’è verso di scrivere un rigo”.Quando arriva la fatidica domanda (Quando uscirà il seguito del romanzo?), Pennac si alza in piedi, indica il suo editore seduto per terra a lato del palco e dice: MAI!

 

Uccidiamo Penelope

Sono dell’idea che Penelope dovrebbe essere uno dei personaggi letterari più odiati di sempre. Riflettendoci, sono arrivata alla conclusione che la sua presenza nell’Odissea non è che un chiaro espediente per far tornare a casa quello sciagurato di Ulisse che altrimenti non avrebbe avuto ragione di tornare alla noiosa Itaca e sarebbe ancora per mare oggi, a fare slalom tra le trivelle, sognando l’Isola dei Famosi.

(Perdonami Omero, so che saprai chiudere un occhio. O due.)

rrrrIronia a parte, Penelope incarna seriamente un modello comportamentale femminile che oggigiorno oserei definire controproducente e obsoleto. Per evitare allora che Simone de Beauvoir e Katherine Pankhurst si rivoltino nella tomba alla sola idea che nel 2016 vi siano ancora donne che facciano ancora  la tela a casa (e quest’espressione racchiude ogni occasione nella quale una donna desidera vivere una vita attiva e qualcosa o qualcuno glielo impedisce), è necessario portare alla luce delle personalità-guida che, seppur fittizie, sappiano bilanciare questo lato ancestrale della femminilità con degli esempi più indipendenti e coraggiosi. La libertà è femmina, e la controversia pure.

 

Paradossalmente, le eroine più irriverenti nascono quasi sempre da una penna maschile. A partire dall’addio di Nora in Casa di Bambola di Ibsen, le donne che hanno fatto della fuga la loro cifra stilistica sono innumerevoli. Per alcune di loro, l’addio è diventato una raison d’être mentre per altre un faux-fuyant verso una realtà apparentemente diversa.

Francesismi a parte, al primo caso appartengono due semi-sconosciuti di nome Jacqueline e Holly.

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Edie Sedgwick

Non ero veramente me stessa se non nel momento in cui fuggivo. Gli unici bei ricordi che ho sono ricordi di fughe vere e proprie o di scappatelle da casa.

Jacqueline è la misteriosa protagonista di “Nel caffé della gioventù perduta” di Patrick Modiano. Figlia di una ballerina del Moulin Rouge, viene schedata ancora adolescente dai poliziotti parigini per vagabondaggio per le strade del Quartier Latin. Le sue scappatoie si traducono presto in qualcosa di più serio: dall’abbandono scolastico fino alla rottura con il marito, Jacqueline si nutre di abbandoni e li consacra come unici veri momenti felici della sua vita perchè nessun uomo le provoca lo stesso batticuore, la stessa perversa ebbrezza del lasciarsi alle spalle un luogo, un incontro, una vita.

Voleva evadere, fuggire sempre più lontano, rompere brutalmente con la vita quotidiana, per respirare all’aria aperta. E c’era poi, di tanto in tanto, quel timore panico di fronte alla prospettiva che le comparse che ti sei lasciato alle spalle potessero ritrovarti e venirti a chiedere conto di qualunque cosa. Bisognava nascondersi per sfuggire a quei ricattatori sperando un giorno definitivamente fuori dalla loro portata.

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La stessa inquietudine caratterizza anche Holly Golightly, la protagonista di “Colazione da Tiffany”. Conosciuta con il volto di Audrey Hepburn a livello mondiale, Holly condivide con Jacqueline un passato turbolento ed un passato altrettanto incerto: sposa in giovane età nel più profondo Midwest, da ladra di uova diventa starlette newyorkese con molta più fatica di quanto il film lasci immaginare. Nell’originale novella di Truman Capote, le sue mean reads (letteralmente “paturnie” in italiano) non sono una scusa per fare capolino tra le vetrine di uno dei negozi di gioielleria più celebri della Grande Mela ma delle vere e proprie crisi depressive, le dolorose conseguenze di una serie di traumi emotivi passati.

I don’t want to own anything until I know I’ve found the place where me and things belong together. I’m not quite sure where that is just yet. But I know what it’s like.”(…) “It’s like Tiffany’s (…). It calms me down right away, the quietness and the proud look of it; nothing very bad could happen to you there, not with those kind men in their nice suits, and that lovely smell of silver and alligator wallets.

L’atmosfera ovattata e familiare di Tiffany, la gentilezza ed il decoro delle commesse ed i gioielli inscalfibili irradiano una luce terapeutica che ricorda le luce verde del molo di Daisy del Grande Gatsby: la speranza, seppur vana, di un orgiastico futuro. Ma il destino di Holly è ben lontano dalla versione di Audrey Hepburn: la vera Holly è una wild thing, uno spirito libero che non può essere addomesticato e che per ragioni di popolarità cinematografica  viene ingabbiato nella rete domestica da George Peppard emntre nel romanzo continua la sua inarrestabile fuga, noncurante addirittura dell’amato gatto spelacchiato.

Never love a wild thing. (…) You can’t give your heart to a wild thing: the more you do, the stronger they get.Until they’re strong enough to run into the woods. Or fly into a tree. Then a taller tree. Then the sky. That’s how you’ll end up, Mr. Bell. If you let yourself love a wild thing. You’ll end up looking at the sky.

Al secondo caso appartengono invece due matrioske in fuga, Otilia e Amy.

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Vivian Maier

Otilia è la niña mala di Mario Vargas Llosa, il cui alter ego Ricardo assiste impotente alle trasformazioni da ragazzina cilena a spia cubana, da nobildonna inglese a prostituta giapponese. In “Avventure della ragazza cattiva” , Otilia dissemina le più varie versioni di se stessa, tutte fedeli all’originale e infedeli al suo uomo, porto sicuro e sepolto da tonnellate di bagagli e maschere.

Faceva sempre in modo di farmi sapere, o meglio, indovinare, che c’erano uno o più segreti nella sua vita di tutti i giorni, una dimensione della sua esistenza cui io non avevo accesso e dalla quale poteva scatenarsi in qualsiasi momento un terremoto che avrebbe mandato all’aria la nostra convivenza.

gonegirl

L’infedeltà è anche la scintilla che fa scoppiare la polveriera coniugale di Amy, la gone girl di Gillian Flynn. Fin da piccola in lotta con la sua doppelganger romanzesca creata dai genitori – un ideale di perfezione sotto forma di libro per bambini-, Amy crede di trovare in Nick una via di fuga ma il loro matrimonio non sarà che l’ennesima gabbia dalla quale la fuga  le costerà un sacco di sangue e di preparazione certosina. Le versioni di Amy sono molteplici e spesso in contrasto tra loro: figlia viziata, giornalista fallita, fidanzata perfetta, moglie insoddisfatta, assassina spregiudicata..

It’s a very difficult era in which to be a person, just a real, actual person, instead of a collection of personality traits selected from an endless Automat of characters.
And if all of us are play-acting, there can be no such thing as a soul mate, because we don’t have genuine souls. It had gotten to the point where it seemed like nothing matters, because I’m not a real person and neither is anyone else. I would have done anything to feel real again.

Rinunciare alla propria identità in favore di un’altra è la vera fuga da se stessi. Ritrovarsi, poi, risulta quasi impossibile perchè la sovrapposizione d’identità necessita di una lavoro di scavo interiore che pochi archeologi sono disposti a intraprendere. Così, molte donne rimangono prive d’identità, in presa al più cupo spaesamento che trasforma ogni luogo in un non-luogo: l’angoscia di ogni partenza corrisponde alla paura dell’eterno non-ritorno di se stessi in se stessi, il rischio assoluto a cui si va incontro quando si scommette su una ipotetica versione di sè. Forse però vale la pena perdersi se l’alternativa è l’immobilità bugiarda di una tela che nel guadagnare tempo, spreca la vita.

 

 

Le citazioni fanno riferimento a:

  • Nel caffè della gioventù perduta di Patrick Modiano (2010), tradotto da Irene Babboni per Einaudi
  • Breakfast at Tiffany’s, Truman Capote, 1958
  • Avventure della ragazza cattiva di Mario Vargas Llosa (2007), tradotto da Glauco Felici per  Einaudi
  • Gone girl, Gillian Flynn, Phoenix Fiction, 2014

Lo scaffale degli snob

Scorrendo le classifiche dei libri di Narrativa straniera più venduti in Italia è raro scorgere un romanzo francese. Confrontando i dati di Ibs, Mondadori e Feltrinelli, la maggior parte della letteratura straniera in Italia viene da Stati Uniti e Inghilterra mentre gli autori francesi raggiungono raramente il podio e raramente dominano per molto tempo. Nonostante le classifiche di vendita non siano esattamente un dato significativo per  lettori – e qui intendo i lettori forti, per usare un termine ISTAT-, è comunque curioso il fatto che gli italiani leggano solo una percentuale minuscola dei romanzi pubblicati oltralpe, se si fa eccezione per gli sporadici bestsellers mondiali come “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery o le saghe di Katherine Pancol (“Gli occhi gialli dei coccodrilli” qualche anno fa e recentemente “Muchachas”), gli scrittori sentimentali come Marc Levy o Guillaume Musso, le provocazioni di Michel Houellebecq (“Sottomissione” ha fatto molto discutere l’anno scorso), gli autori già consacrati come Daniel Pennac o Eric-Emmanuel Schmitt e  quelli di genere come Georges Simenon.

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La letteratura francese ha in realtà molto da offrire  ma rimane spesso confinata in una nicchia editoriale dalla quale fatica ad uscire per vari motivi: al di là dell’egemonia anglo-americana, la narrativa francese non prende piede per motivazioni a mio avviso puramente socio-culturali ovvero lo stereotipo che associa al cittadino francese una massiccia dose di snobismo e superiorità gratuita che viene estesa mentalmente a tutta la cultura francese. Il lettore italiano e il cittadino medio italiano rifuggono dalla cultura francese per questa sedimentazione culturale che funziona da spaventapasseri in campo letterario. In realtà la letteratura francese ha ben poco a che fare con lo snobismo sopracitato e addirittura gli stessi francesi riconoscono questo difetto come dimostra l’ultimo romanzo di Nicolas Fargues,  Au pays du p’tit (P.O.L., 2015), ancora inedito in Italia.

 

 

 

 

La trama racconta le vicissitudini del sociologo Romain Rouissen che viaggia in Russia e in seguito in America per presentare il suo ultimo saggio e lascia dietro di sé una scia di donne innamorate e di intellettuali sconcertati dalla sua feroce critica sui francesi e sui loro “piccoli” grandi difetti.

41JD6BUzlUL._AC_UL320_SR216,320_Quarantenne in crisi, il nostro ricercatore disprezza la società borghese e si rifugia nel suo ruolo di scrittore-maledetto dalla sua perspicacia – una dote abbastanza discutibile dal punto di vista del lettore- e dalla sua intelligenza stancamente nichilista. Il suo ultimo nonché primo romanzo è in realtà uno studio basato su  delle ricerche immaginarie e sembra avere un discreto successo non solo in patria ma anche all’estero. Lui, però, non ne è soddisfatto. Niente sembra avere importanza nella sua vita, eccezion fatta per la sete di conquiste di donne che non siano la sua e la soddisfazione del suo ego immenso.

 

 

Nicolas Fargues tenta di scioccare i Francesi proponendo loro un’interessante riflessione sulla loro patria, tanto amata ma decadente, il paese dei  “piccoli” piaceri come  « Un p’tit resto, un p’tit ciné, un p’tit café, une p’tite balade, un p’tit week-end, un p’tit bordeaux, un p’tit dessert » e delle grandi ipocrisie. Sfortunatamente la sua critica è offuscata dalla presenza di un antieroe troppo ingombrante: Romain è visibilmente la personificazione dei difetti tipici dei francesi “de souche” (in una traduzione abbastanza barbara, francesi D.O.C) ovvero l’arroganza, l’infedeltà, l’ignavia e l’ipocrisia ma il suo personaggio fa crescere nel lettore un senso di distacco e disprezzo che gli impedisce di comprendere il suo ruolo nel romanzo. Purtroppo però è anche vero che  la sua assenza non avrebbe fatto guadagnare al libro lo stesso successo e soprattutto la candidatura al Prix Goncourt 2015, anche se sarebbe stato un saggio di sociologia immaginaria perfetta.

 

Être agacé par les autres et se considérer soi-même supérieur au reste de l’humanité est davantage qu’un folklore national : c’est un mode de vie, une fierté, une conviction, un code génétique, bref, une culture. Il y a cependant un geste bien particulier qui, à ma connaissance, n’a pas été répertorié par les spécialistes de l’étude des comportements humains et qui me paraît parfaitement illustrer ce fameux mélange d’orgueil et de pouvoir des mots auquel je viens à l’instant de faire référence, tout en révélant au fond une grande fragilité : se hisser sur la pointe des pieds.

 

Ma l’odio dei lettori verso Romain non si potrà mai superare quello delle lettrici nel confronti del suo becero maschilismo che alimenta il binomio vecchio come il tempo di donna-martire che deve sopportare tutti i colpi di testa del protagonista senza protestare. Un’altra figura stereotipata è quella della giovane studentessa inesperta sedotta dal grande professore, una storia basata sul sesso e sul più insopportabile mansplaining ( dall’unione di man+ explaining: quando un uomo spiega generalmente a una donna qualcosa in maniera condiscendente e con un certo paternalismo di fondo).

In conclusione, un ibrido romanzesco che ha del potenziale mal sfruttato e un protagonista abbastanza detestabile che fa desiderare ai lettori di avere la fortuna di non incontrare mai in vita loro un individuo del genere. Vi lascio con questo divertente video sui clichés francesi, au revoir!