Gli scoiattoli di Central Park sono tristi il lunedì.

Quando penso allo straordinario potere delle parole mi viene in mente il termine ceropeduncolo. Per chi non lo sapesse (ma non fatevene una colpa, penso che si tratti del 98% della popolazione italiana) i ceropeduncoli sono i pezzetti di plastica posti al fondo dei lacci delle scarpe da ginnastica affinché non si disfino e si possano infilare facilmente negli occhielli. Ecco perchè, di ritorno da una settimana a New York, sono andata alla ricerca della parola perfetta per definire quella sensazione di svuotamento interiore che è la depressione post viaggio. In fondo, ho pensato, se esiste una parola per definire un oggettino insignificante come la parte finale dei lacci delle scarpe, allora esisterà per forza una parola perfetta per definire quello che sento ora (oltre un fortissimo jet-lag, s’intende).

La parola perfetta sembra essere saudade, una parola intraducibile, anzi, la settima parola più difficile da tradurre secondo i traduttori professionisti di tutto il mondo secondo la BBC (qui per l’articolo originale), con diverse accezioni ma che in generale esprime un sentimento di forte nostalgia e struggimento verso un ricordo felice che ormai appartiene al passato e, allo stesso tempo, il desiderio di riviverlo ancora. Peccato che i marinai portoghesi dopo aver creato questa parola non si siano occupati di indicare un rimedio a questo sentimento talmente forte da lasciarti confuso e disorientato per giorni.

Il mio personalissimo rimedio alla saudade sembra essere quello di rivedere le fotografie dei magnifici luoghi che ho visitato, delle opere d’arte che ho ammirato e dei posti in cui mi sono divertita dall’altra parte dell’oceano. Eccole insieme a qualche consiglio, nella speranza di essere utile al prossimo aspirante new yorker (e soprattutto per aiutarmi a matar a saudade).

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Anima di Wajdi Mouawad

Se c’è un’espressione della lingua italiana che mi ha sempre dato fastidio è quando si definisce qualcosa ”adatto a stomaci forti”. Io so benissimo di essere uno stomaco debole – sono ancora traumatizzata dalla morte della mamma di Bambi, decisamente il mio più grande trauma infantile – e quindi questa raccomandazione dovrebbe essermi utile e risparmiarmi qualche rimescolamento interiore. Magari.  Come quando ti dicono ma ti piace il cibo piccante? e tu con artificialissima nonchalance rispondi Sì, abbastanza, mangi e poi sputi fuoco come un drago, ecco che l’etichetta per-stomaci-forti fa nascere in me una specie di spavalderia, la necessità di vincere una sfida – con me stessa e con il cibo messicano. anima Tutta questa superflua premessa per dire che nessuno mi aveva detto che Anima di Wajdi Mouawad sarebbe stato un pugno allo stomaco. (Nella quarta di copertina non c’era forse spazio, tra tutti quei complimenti, per avvertirmi dell’imminente pericolo? ”Superbo, straordinario, potrebbe nuocere gravemente alla tua salute?’‘) Altri romanzi mi hanno avevano già colpito profondamente ( come Il signore degli orfani o Educazione siberiana) ma  nessuno aveva mai avuto un’apparenza così innocua ed un contenuto così forte: la copertina è colorata, ipnotica, quasi surreale – il corpo di un serpente sul quale si dispiegano squame biancastre, rosate ed infine bluastre in un turbine flessuoso, in contrasto con lo sfondo piatto, color crema- quanto la storia che racchiude.

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La filosofia di Karl Ove Knausgård

All’inizio furono i Sigur Rós. O forse l’Ikea, con le sue polpettine in salsa di mirtilli e sedie poco ergonomiche. O forse è stata tutta colpa di Stieg Larsson, degli uomini che odiano le donne, delle donne che odiano gli uomini che odiano le donne e degli uomini che amano le donne che odiano gli uomini che odiano le donne. Di cosa sto parlando? Della cultura scandinava in Italia e del fatto che, dopo anni di stereotipi, romanzetti pseudoceltici e gialli agghicciandi (leggetelo come lo direbbe  Antonio Conte), finalmente è arrivato in Italia un prodotto di natura anti-commerciale (un’ autobiografia di più di tremila pagine) che ha avuto un immediato successo.

la morte del padre “La morte del padre” è il primo capitolo di una serie di libri chiamata ‘Min Kamp‘, un provocatorio riferimento all’autobiografia di Adolf Hitler, Mein Kampf, ovvero la mia lotta. Ma parliamoci chiaro: non si tratta di un saggio nazi-filosofeggiante, anzi. La scelta del titolo è legata al continuo dibattersi furioso dell’autore tra due livelli di esistenza: l’idealismo, la tensione verso l’arte, il piacere  della scrittura, il bisogno di raccontare la propria vita senza omettere nessun dettaglio, nessun nome, con la meticolosità di un pazzo; e dall’altra parte l‘odissea quotidiana, la vita nella sua continuità ciclica, la quotidianità di un uomo qualunque e della sua famiglia. Il risultato è una narrazione altalenante, che finge di incentrarsi sulla morte del padre di Karl Ove ma che finisce per parlare di tutt’altro: dei quadri di Turner, delle marche dei detersivi, delle sue abitudini mattutine, della sua prima ubriacatura, di una serie di episodi assolutamente secondari che paiono avere un ruolo fondamentale nella vita di questo quarantasettenne norvegese che compila la sua parziale autobiografia perché “credo che dalle parole, dal discorso intorno alla realtà, scaturiscano nuovi livelli di comprensione”.

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