Femminista non è una parolaccia: Riflessioni di una poco di buono

Come in ogni racconto che si rispetti, inizio dicendo che i fatti narrati sono tratti da una storia vera e che ogni riferimento a cose, persone, luoghi è voluto in modo da rendere chiaro il messaggio che voglio trasmettere. Nessuna profezia della fine del mondo o dell’arrivo del messia, promesso. Solo un invito a pensare con la testa.

C’erano una volta quindi, un gruppo di amiche che sabato sera uscirono per andare a bere qualcosa in un locale del centro. Niente di speciale, solo per divertirsi un po’ insieme. Prima di uscire da un locale, una mia amica mi riferisce che un ragazzo aveva commentato ad alta voce il mio vestito e la mia persona, definendomi una poco di buono (per non utilizzare l’esatto termine utilizzato dallo specialista in questione ovvero troia) ad andare in giro conciata così.

Ora, bisognerebbe dire che c’erano trenta gradi, che il vestito era corto fino a metà coscia, scollato sul davanti e sul dietro senza essere eccessivo, che era di cotone blu con dei pallini bianchi, che ai piedi avevo un paio di espadrillas nere ed una borsa nera di pelle.

Ah no aspetta. Non ho bisogno di giustificarmi. In fondo, nessun uomo si giustifica mai per come si veste. Nessun uomo è mai giudicato così malignamente per come si veste.  Nessun uomo prova la vergogna di sentirsi a disagio con se stesso a causa di un pezzo di stoffa. Ma io sì perchè sono una femmina e quindi merito di essere tratta come un pezzo di carne ambulante.

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L’egoismo di Olive Kitteridge

Come si riconosce un classico? In genere dalla polvere sulla copertina.

Scherzi a parte, ultimamente mi sono chiesta cosa faccia guadagnare ad un romanzo l’ambitissima etichetta dorata di classico della letteratura e soprattutto cosa significhi per me in quanto lettrice. Cos’è un classico per me? Un romanzo che parla dei grandi temi della vita attraverso episodi singolari ma allo stesso tempo universalmente condivisibili. Ecco perchè credo che Olive Kitterdige sia destinato a diventare un classico della letteratura americana.

974Elizabeth Strout sceglie il microcosmo di Crosby, una cittadina del Maine, come sfondo per una serie di capitoli-racconti che sono autonomi, cronologicamente disposti ma soprattutto accumunati da un fil rouge: il rimando a Olive Kitteridge, scorbutica insegnante di matematica che con la sua presenza o influenza su altri personaggi viene progressivamente descritta da diversi punti di vista, senza mai arrivare ad averne un ritratto preciso ma incessantemente nebuloso e contraddittorio. Attorno ad Olive gravitano il marito dal cuore d’oro, Henry, ed il sensibilissimo figlio Christopher, componendo così un nucleo famigliare apparentemente semplice che rivela alcune crepe al suo interno: Olive non sopporta la dolcezza di Henry e sabota tutti i suoi gesti affettuosi e Christopher è spesso umiliato psicologicamente e fisicamente dalla madre, scontenta del suo atteggiamento apatico e della sua misera media scolastica.

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The danger of a single story.

Dopo aver ascoltato le parole di Chimamanda Adichie, mi sono sentita immediatamente in colpa. Pensando alla mia libreria, ho realizzato di essere anche io figlia della storia unica, vittima degli stereotipi: la mia dieta letteraria si basa prevalentemente su autori occidentali, alcuni americani, scrittori quasi sempre maschi, bianchi, benestanti.  Ciò che leggo è intriso indirettamente dal punto di vista occidentale, che, per quanto tollerante e assolutamente antirazzista possa essere, rimane diffidente verso ciò che supera i ”sacri” confini dell’Unione Europea (lo stesso vale per il presunto melting pot americano). Anche il mio sguardo sull’Africa è quindi di pietosa compassione, di lacrimevole indignazione verso stupri, massacri e guerre, alimentata dai reportage strappalacrime dei quotidiani e e dalla vox populi dei social network.

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L’isola di Arturo

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The white boat – Joaquín Sorolla

‘’Nelle figurazioni dei miti eroici, l’isola nativa rappresenta una felice reclusione originaria e, insieme, la tentazione delle gioie ignote. L’isola, dunque, è il punto di una scelta: e a tale scelta finale, attraverso le varie prove necessarie, si prepara qui nella sua isola l’eroe-ragazzo Arturo Gerace ‘’: così si trova scritto su di una delle prime quarte di copertina di questo romanzo del 1980.

L’opera comincia con l’infanzia di Arturo, che trascorre placida all’insegna delle esplorazioni dell’isola di Procia, un piccolo paradiso terrestre con abitanti diffidenti alla stirpe dei Gerace per colpa di alcune leggende sulla loro dimora. Quest’ultima, soprannominata la casa dei guaglioni a causa delle feste per soli uomini celebrate dall’antico proprietario,  è ormai caduta in rovina e si presenta come un castello disabitato, un ammasso di legno scricchiolante e preziosi tessuti tarlati. Tutto ciò ad Arturo non importa, si accontenta di una maschera per vedere sottacqua, la sua Torpediniera della Acque e della compagnia di Immacolatella, la sua cagnolina, unica sua stabile compagnia. A causa della sua mancanza d’interlocutore e quasi perenne solitudine, forgia il suo codice d’onore alla maniera dei cavalieri medioevali e riceve la sua prima educazione dalla natura e dall’esperienza.

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Looking for Shellfish – Joaquín Sorolla

Le due figure più importanti dell’infanzia, la madre ed il padre, sono idealizzate nella mente del bambino come personaggi importantissimi: la madre, morta di parto, di cui il piccolo non conserva che una foto sbiadita, viene raffigurata nell’immaginazione di Arturo come il suo angelo custode dai tratti orientali, che fluttua nell’aria della notte in una tenda arabeggiante; il padre, d’altro canto, è vivo ma avvolto in un’aura di mistero: irascibile, lunatico e –a detta del bambino- bellissimo, si converte nel suo idolo personale, per il quale prova ammirazione e rispetto. Non ci è chiaro quale sia il mestiere che lo porti a viaggiare così tanto, ma Arturo non se ne preoccupa e lo dipinge come un esploratore impavido che va e viene, a suo piacimento.

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