Riparare i viventi

Breve premessa: non si tratta di un pippone moralista sull’ambiente, l’ecologia, l’inquinamento, a dispetto del titolo dell’articolo. E’ vero, sa un po’ di bricolage – Riparare i viventi-, ma si tratta di un romanzo francese uscito di recente.

Maylis de Kerangal tesse abilmente i fili del destino di una manciata di personaggi che, nel giro di ventiquattr’ore, cambia drasticamente. Il filo che viene reciso dall’autrice è quello di Simon Limbres, un giovane appassionato di surf che perde la vita in seguito ad un incidente con gli amici. Entra in coma e viene confermata la sua morte cerebrale, mentre ai genitori viene fatta una proposta sconvolgente: sarebbero disposti a donare i suoi organi?

17d87cb09a2c0fbdf2488a8beec61a9dIl romanzo si pone al di sopra di ogni dilemma etico e si presenta per quello che è, ovvero un’opera corale nella quale emerge un protagonista insospettabile: il cuore. Anzi, un cuore. Nell’immaginario comune, il cuore è da sempre la grande casa dei sentimenti, l’organo poetico per eccellenza, colui che possiede des raisons que la raison ne connait pas, ma scientificamente, ormai da tempo, è stato tristemente declassato. Infatti, nel 1959 con la definizione di coma dépassé, gli scienziati Goulon e Mollaret sanciscono la nascita del concetto di morte cerebrale: scacco matto al cuore, il cervello vince la partita.

Quel che Goulon e Mollaret sono andati a dire sta tutto in una frase della portata di una bomba a scoppio ritardato: l’arresto del cuore non è più segno di morte, ad attestarla è ormai l’abolizione delle funzioni cerebrali. In altri termini: non penso dunque non sono. Deposizione del cuore e consacrazione del cervello- un colpo di stato simbolico, una rivoluzione.

Oltre alla dicotomia cuore-cervello, un altro tema del romanzo è la visione della morte come perdita e salvezza. Per i genitori di Simon è un duro colpo e l’assimilazione della perdita si confonde e amalgama con una decisione difficile da prendere: i due non riescono ad interpretare la volontà del figlio che viene descritto come un ragazzo generoso – che non si presenta come l’esatto sinonimo di donatore. Il  dolore è descritto magistralmente dal punto di vista materno:

un pezzo della sua vita, un pezzo bello grosso, ancora caldo, compatto, si stacca dal presente per colare a picco in un tempo passato, per crollarvi e scomparire.

In effetti il corpo di Simon è ancora caldo, in netto contrasto con il parere dei medici che sono ormai consapevoli della sua assenza a livello cerebrale. E se da un lato la morte del giovane è lutto, dall’altra è speranza: una volta presa la decisione, si decide di asportare cuore, polmoni, fegato e reni che vanno a quattro malati differenti, provenienti da tutta la Francia. Paradossalmente, primo a comprarire, il cuore sarà l’ultimo a scomprarire.

La procedura chirurgica è un rito che sancisce il passaggio tra vita e morte, perdita e salvezza: gli organi vengono prelevati e impiantati nei loro nuovi proprietari. Lo sguardo del narratore segue il tragitto del cuore che da La Havre arriva fino a Parigi e fa rifiorire la vita di una donna ormai senza speranze. Ma non è nel dono che risiede il senso del romanzo, il suo vero nucleo: è una linea che, spezzatasi, con i lembi ancora sbrindellati, si riallaccia a se stessa formando un grande cerchio che è la vita nella sua globalità, la vita del singolo sommata alla vita di tutti.

La narrazione non si presenta come una domanda saccente, imperiosa, – perché salvare i viventi? – ma scorre lenta, seguendo il semplice corso degli eventi, senza imporre una presa di posizione. Ed è proprio nell’assoluta libertà di scelta che risiede la bellezza di questo romanzo, la libertà di non schierarsi ma semplicemente assistere ad un fenomeno di transizione con la stessa leggerezza con cui si alza lo sguardo e si osservano gli stormi migrare verso terre lontane.

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