The danger of a single story.

Dopo aver ascoltato le parole di Chimamanda Adichie, mi sono sentita immediatamente in colpa. Pensando alla mia libreria, ho realizzato di essere anche io figlia della storia unica, vittima degli stereotipi: la mia dieta letteraria si basa prevalentemente su autori occidentali, alcuni americani, scrittori quasi sempre maschi, bianchi, benestanti.  Ciò che leggo è intriso indirettamente dal punto di vista occidentale, che, per quanto tollerante e assolutamente antirazzista possa essere, rimane diffidente verso ciò che supera i ”sacri” confini dell’Unione Europea (lo stesso vale per il presunto melting pot americano). Anche il mio sguardo sull’Africa è quindi di pietosa compassione, di lacrimevole indignazione verso stupri, massacri e guerre, alimentata dai reportage strappalacrime dei quotidiani e e dalla vox populi dei social network.

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L’isola di Arturo

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The white boat – Joaquín Sorolla

‘’Nelle figurazioni dei miti eroici, l’isola nativa rappresenta una felice reclusione originaria e, insieme, la tentazione delle gioie ignote. L’isola, dunque, è il punto di una scelta: e a tale scelta finale, attraverso le varie prove necessarie, si prepara qui nella sua isola l’eroe-ragazzo Arturo Gerace ‘’: così si trova scritto su di una delle prime quarte di copertina di questo romanzo del 1980.

L’opera comincia con l’infanzia di Arturo, che trascorre placida all’insegna delle esplorazioni dell’isola di Procia, un piccolo paradiso terrestre con abitanti diffidenti alla stirpe dei Gerace per colpa di alcune leggende sulla loro dimora. Quest’ultima, soprannominata la casa dei guaglioni a causa delle feste per soli uomini celebrate dall’antico proprietario,  è ormai caduta in rovina e si presenta come un castello disabitato, un ammasso di legno scricchiolante e preziosi tessuti tarlati. Tutto ciò ad Arturo non importa, si accontenta di una maschera per vedere sottacqua, la sua Torpediniera della Acque e della compagnia di Immacolatella, la sua cagnolina, unica sua stabile compagnia. A causa della sua mancanza d’interlocutore e quasi perenne solitudine, forgia il suo codice d’onore alla maniera dei cavalieri medioevali e riceve la sua prima educazione dalla natura e dall’esperienza.

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Looking for Shellfish – Joaquín Sorolla

Le due figure più importanti dell’infanzia, la madre ed il padre, sono idealizzate nella mente del bambino come personaggi importantissimi: la madre, morta di parto, di cui il piccolo non conserva che una foto sbiadita, viene raffigurata nell’immaginazione di Arturo come il suo angelo custode dai tratti orientali, che fluttua nell’aria della notte in una tenda arabeggiante; il padre, d’altro canto, è vivo ma avvolto in un’aura di mistero: irascibile, lunatico e –a detta del bambino- bellissimo, si converte nel suo idolo personale, per il quale prova ammirazione e rispetto. Non ci è chiaro quale sia il mestiere che lo porti a viaggiare così tanto, ma Arturo non se ne preoccupa e lo dipinge come un esploratore impavido che va e viene, a suo piacimento.

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Gli scoiattoli di Central Park sono tristi il lunedì.

Quando penso allo straordinario potere delle parole mi viene in mente il termine ceropeduncolo. Per chi non lo sapesse (ma non fatevene una colpa, penso che si tratti del 98% della popolazione italiana) i ceropeduncoli sono i pezzetti di plastica posti al fondo dei lacci delle scarpe da ginnastica affinché non si disfino e si possano infilare facilmente negli occhielli. Ecco perchè, di ritorno da una settimana a New York, sono andata alla ricerca della parola perfetta per definire quella sensazione di svuotamento interiore che è la depressione post viaggio. In fondo, ho pensato, se esiste una parola per definire un oggettino insignificante come la parte finale dei lacci delle scarpe, allora esisterà per forza una parola perfetta per definire quello che sento ora (oltre un fortissimo jet-lag, s’intende).

La parola perfetta sembra essere saudade, una parola intraducibile, anzi, la settima parola più difficile da tradurre secondo i traduttori professionisti di tutto il mondo secondo la BBC (qui per l’articolo originale), con diverse accezioni ma che in generale esprime un sentimento di forte nostalgia e struggimento verso un ricordo felice che ormai appartiene al passato e, allo stesso tempo, il desiderio di riviverlo ancora. Peccato che i marinai portoghesi dopo aver creato questa parola non si siano occupati di indicare un rimedio a questo sentimento talmente forte da lasciarti confuso e disorientato per giorni.

Il mio personalissimo rimedio alla saudade sembra essere quello di rivedere le fotografie dei magnifici luoghi che ho visitato, delle opere d’arte che ho ammirato e dei posti in cui mi sono divertita dall’altra parte dell’oceano. Eccole insieme a qualche consiglio, nella speranza di essere utile al prossimo aspirante new yorker (e soprattutto per aiutarmi a matar a saudade).

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Anima di Wajdi Mouawad

Se c’è un’espressione della lingua italiana che mi ha sempre dato fastidio è quando si definisce qualcosa ”adatto a stomaci forti”. Io so benissimo di essere uno stomaco debole – sono ancora traumatizzata dalla morte della mamma di Bambi, decisamente il mio più grande trauma infantile – e quindi questa raccomandazione dovrebbe essermi utile e risparmiarmi qualche rimescolamento interiore. Magari.  Come quando ti dicono ma ti piace il cibo piccante? e tu con artificialissima nonchalance rispondi Sì, abbastanza, mangi e poi sputi fuoco come un drago, ecco che l’etichetta per-stomaci-forti fa nascere in me una specie di spavalderia, la necessità di vincere una sfida – con me stessa e con il cibo messicano. anima Tutta questa superflua premessa per dire che nessuno mi aveva detto che Anima di Wajdi Mouawad sarebbe stato un pugno allo stomaco. (Nella quarta di copertina non c’era forse spazio, tra tutti quei complimenti, per avvertirmi dell’imminente pericolo? ”Superbo, straordinario, potrebbe nuocere gravemente alla tua salute?’‘) Altri romanzi mi hanno avevano già colpito profondamente ( come Il signore degli orfani o Educazione siberiana) ma  nessuno aveva mai avuto un’apparenza così innocua ed un contenuto così forte: la copertina è colorata, ipnotica, quasi surreale – il corpo di un serpente sul quale si dispiegano squame biancastre, rosate ed infine bluastre in un turbine flessuoso, in contrasto con lo sfondo piatto, color crema- quanto la storia che racchiude.

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La filosofia di Karl Ove Knausgård

All’inizio furono i Sigur Rós. O forse l’Ikea, con le sue polpettine in salsa di mirtilli e sedie poco ergonomiche. O forse è stata tutta colpa di Stieg Larsson, degli uomini che odiano le donne, delle donne che odiano gli uomini che odiano le donne e degli uomini che amano le donne che odiano gli uomini che odiano le donne. Di cosa sto parlando? Della cultura scandinava in Italia e del fatto che, dopo anni di stereotipi, romanzetti pseudoceltici e gialli agghicciandi (leggetelo come lo direbbe  Antonio Conte), finalmente è arrivato in Italia un prodotto di natura anti-commerciale (un’ autobiografia di più di tremila pagine) che ha avuto un immediato successo.

la morte del padre “La morte del padre” è il primo capitolo di una serie di libri chiamata ‘Min Kamp‘, un provocatorio riferimento all’autobiografia di Adolf Hitler, Mein Kampf, ovvero la mia lotta. Ma parliamoci chiaro: non si tratta di un saggio nazi-filosofeggiante, anzi. La scelta del titolo è legata al continuo dibattersi furioso dell’autore tra due livelli di esistenza: l’idealismo, la tensione verso l’arte, il piacere  della scrittura, il bisogno di raccontare la propria vita senza omettere nessun dettaglio, nessun nome, con la meticolosità di un pazzo; e dall’altra parte l‘odissea quotidiana, la vita nella sua continuità ciclica, la quotidianità di un uomo qualunque e della sua famiglia. Il risultato è una narrazione altalenante, che finge di incentrarsi sulla morte del padre di Karl Ove ma che finisce per parlare di tutt’altro: dei quadri di Turner, delle marche dei detersivi, delle sue abitudini mattutine, della sua prima ubriacatura, di una serie di episodi assolutamente secondari che paiono avere un ruolo fondamentale nella vita di questo quarantasettenne norvegese che compila la sua parziale autobiografia perché “credo che dalle parole, dal discorso intorno alla realtà, scaturiscano nuovi livelli di comprensione”.

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Fatto e spolverato – la breve storia di chi ce l’ha fatta.

Ho deciso di scrivere questo post (un barlume di serietà in mezzo a tanto sarcasmo) per condividere un’esperienza che probabilmente pochi avranno avuto la fortuna di avere: parlare liberamente con un giovane africano che ha attraversato il Mediterraneo per arrivare qui e, per fortuna, non ne ha visto il fondale.

Si chiama Amadou, ha più di vent’anni ma sembra un ragazzino delle medie. Viene da una regione dell’Africa sconosciuta a molti (a me per prima) ovvero il Gambia, stretto tra il Senegal e l’Oceano Atlantico. Si tratta di una nazione minuscola a prevalenza anglofona dove convivono tranquillamente musulmani, cristiani ed ebrei. L’economia si basa principalmente sul turismo e sul commercio. Non c’è la guerra. E allora perchè si scappa, se non c’è la guerra?

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Dieci domande molto imbarazzanti

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Il ”Liebster Award” è un premio che viene conferito da un blog ad un altro e via dicendo affinché ci sia la possibilità di conoscerne il più possibile. Il testimone mi è stato passato da The Lark and The Plunge (che ringrazio molto!) ed in teoria, dovrei nominare altri dieci blog: purtroppo non ne conosco così tanti quindi mi limiterò a rispondere alle dieci domande che mi sono state fatte. Eccole:

1. Quanto metti di te stessa/o nel blog? Pensi mai a come ti immagina chi ti legge?

Sono molto attenta a ciò che metto di me stessa nel blog e cerco di dosare la mia personalità: Internet non è un luogo giusto per rovesciare dentro tutti gli aspetti della mia vita personale, nonostante l’esibizionismo condiviso dei social network. Penso spesso a come pormi davanti a un immaginario ”pubblico” e quando scrivo cerco di essere la versione più autentica di me, senza scivolare nell’esibizionismo.

2. Non provi un po’ di nostalgia quando scrivi, pensando che una volta lo si faceva su diari e fogli sparsi, che poi vengono ritrovati secoli dopo e diventano così incredibilmente affascinanti?

La questione ”diario” è molto spinosa per me: da piccola ne ho tenuti tantissimi, poi ho smesso all’improvviso ed ora sto lentamente cercando di ritornare alla gioia del tenere un resoconto personale che , forse, un giorno sarò felice di sfogliare di nuovo. Ho molti pensieri a proposito – perché sono sostanzialmente inconstante e ho abbandonato decine di diari a metà mentre un’altra parte di me vorrebbe annotare ogni secondo di ogni minuto di ogni ora per non dimenticare mai nulla- quindi tenetevi pronti per un lunghissimo post a proposito, prossimamente su questi schermi.

3. Pensi di essere in grado di lasciare un segno indelebile del tuo passaggio in questo mondo?

Questa è una domanda esistenziale grandissima!                                                                Ci sarebbero vari modi di assicurarsi una pagina nella storia mondiale: dalla semplice trasmissione del mio unico patrimonio genetico alla creazione di un’opera che sopravviva a me stessa e che trasmetta la mia voce nel futuro. Ma non pendo si essere così ambiziosa: penso che sarò principalmente ricordata come la zia Roberta, quella con un occhio particolare per i regali ed i difetti delle persone.

4. Credi che le mie prime tre domande siano troppo serie? Ne vorresti una un po’ più light (la prossima ti lascerà senza parole)?

Sì, questi quesiti esistenziali mi uccidono!

5. Appartieni a quale di queste categorie? Prima categoria, ho letto le 50 sfumature per poterlo criticare e ora lo critico a man bassa; seconda, ti pare che leggo quella roba? terza, di cosa stai parlando? (mi rifiuto di inserire una categoria per quelli a cui è piaciuto, non ce la posso fare, mi dispiace)

Penso di aver risposto benissimo in questo post, ma riassumendo: ”Ho letto un sacco di commenti su Internet a proposito (perché sono essenzialmente masochista, lo ammetto) e quello che mi ha colpito di più difendeva la trilogia dicendo che ‘anche nel passato, opere che noi oggi riteniamo eccezionali e studiamo come classici della letteratura, sono stati criticati aspramente e non compresi’. Mi rifiuto di credere che la nostra debba essere ricordata come la generazione di 50 sfumature di Grigio quando in giro ci sono romanzi ben più interessanti che vengono declassati e snobbati dall’editoria.”

(quanto fa figo autocitarsi? Ora capisco gli scrittori seri!)

6. Se potessi scegliere di cambiare il finale di un libro, quale cambieresti?

Ho recentemente letto il libro da cui è tratto l’omonimo film ‘Gone Girl: L’amore bugiardo’ e (spoiler), se la trama è ricca di colpi di scena (nell’esatta metà del libro giri pagina e vorresti piangere, strapparti i capelli e picchiare l’autrice), il finale mi ha deluso un po’. Forse avrei voluto l’estrema prova della natura da psicopatica di Amy o un riscatto finale di suo marito: di certo una storia così potente non dovrebbe finire in maniera così banale.

7. Greci o Troiani?

Cud iu plis ripit de qqestion?

8. Immagina di avere la possibilità di essere per un giorno un’altra persona.  Chi saresti?

Ogni tanto penso che sarebbe bello una persona diversa, più semplice, naturale, una che ascolta Tiziano Ferro e non si fa tante domande su ciò che la circonda (e sul significato dei testi della canzoni di Tiziano Ferro), senza desideri complessi e ideali astrusi. Poi lascio perdere.

9. Chi sono i tuoi modelli di vita? Valgono anche i personaggi di finzione.

Ecco una breve panoramica delle mie eroine (letterarie e non): Prisca Puntoni, protagonista del mio libro preferito quando ero bambina ovvero ”Ascolta il mio cuore” di Bianca Pitzorno e la sua mitica tartaruga Dinosaura; Lizzie Bennet di Orgoglio e Pregiudizio ; Otilia, la niña mala di Mario Vargas Llosa in ”Travesuras de la niña mala” (titolo intraducibile in italiano se non si vuole scadere nel triste scaffale dei romanzetti rosa) ;  e soprattutto Holly Golightly di Colazione da Tiffany (”Vuoi sapere qual è la verità sul tuo conto? Sei una fifona, non hai un briciolo di coraggio, neanche quello semplice e istintivo di riconoscere che a questo mondo ci si innamora, che si deve appartenere a qualcuno, perché questa è la sola maniera di poter essere felici. Tu ti consideri uno spirito libero, un essere selvaggio e temi che qualcuno voglia rinchiuderti in una gabbia. E sai che ti dico? Che la gabbia te la sei già costruita con le tue mani ed è una gabbia dalla quale non uscirai, in qualunque parte del mondo tu cerchi di fuggire, perché non importa dove tu corra, finirai sempre per imbatterti in te stessa.’‘)

10. Qual è una categoria di persone che proprio non sopporti e con cui non riusciresti ad avere uno scambio di opinioni?

E’ molto semplice:

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Riparare i viventi

Breve premessa: non si tratta di un pippone moralista sull’ambiente, l’ecologia, l’inquinamento, a dispetto del titolo dell’articolo. E’ vero, sa un po’ di bricolage – Riparare i viventi-, ma si tratta di un romanzo francese uscito di recente.

Maylis de Kerangal tesse abilmente i fili del destino di una manciata di personaggi che, nel giro di ventiquattr’ore, cambia drasticamente. Il filo che viene reciso dall’autrice è quello di Simon Limbres, un giovane appassionato di surf che perde la vita in seguito ad un incidente con gli amici. Entra in coma e viene confermata la sua morte cerebrale, mentre ai genitori viene fatta una proposta sconvolgente: sarebbero disposti a donare i suoi organi?

17d87cb09a2c0fbdf2488a8beec61a9dIl romanzo si pone al di sopra di ogni dilemma etico e si presenta per quello che è, ovvero un’opera corale nella quale emerge un protagonista insospettabile: il cuore. Anzi, un cuore. Nell’immaginario comune, il cuore è da sempre la grande casa dei sentimenti, l’organo poetico per eccellenza, colui che possiede des raisons que la raison ne connait pas, ma scientificamente, ormai da tempo, è stato tristemente declassato. Infatti, nel 1959 con la definizione di coma dépassé, gli scienziati Goulon e Mollaret sanciscono la nascita del concetto di morte cerebrale: scacco matto al cuore, il cervello vince la partita.

Quel che Goulon e Mollaret sono andati a dire sta tutto in una frase della portata di una bomba a scoppio ritardato: l’arresto del cuore non è più segno di morte, ad attestarla è ormai l’abolizione delle funzioni cerebrali. In altri termini: non penso dunque non sono. Deposizione del cuore e consacrazione del cervello- un colpo di stato simbolico, una rivoluzione.

Oltre alla dicotomia cuore-cervello, un altro tema del romanzo è la visione della morte come perdita e salvezza. Per i genitori di Simon è un duro colpo e l’assimilazione della perdita si confonde e amalgama con una decisione difficile da prendere: i due non riescono ad interpretare la volontà del figlio che viene descritto come un ragazzo generoso – che non si presenta come l’esatto sinonimo di donatore. Il  dolore è descritto magistralmente dal punto di vista materno:

un pezzo della sua vita, un pezzo bello grosso, ancora caldo, compatto, si stacca dal presente per colare a picco in un tempo passato, per crollarvi e scomparire.

In effetti il corpo di Simon è ancora caldo, in netto contrasto con il parere dei medici che sono ormai consapevoli della sua assenza a livello cerebrale. E se da un lato la morte del giovane è lutto, dall’altra è speranza: una volta presa la decisione, si decide di asportare cuore, polmoni, fegato e reni che vanno a quattro malati differenti, provenienti da tutta la Francia. Paradossalmente, primo a comprarire, il cuore sarà l’ultimo a scomprarire.

La procedura chirurgica è un rito che sancisce il passaggio tra vita e morte, perdita e salvezza: gli organi vengono prelevati e impiantati nei loro nuovi proprietari. Lo sguardo del narratore segue il tragitto del cuore che da La Havre arriva fino a Parigi e fa rifiorire la vita di una donna ormai senza speranze. Ma non è nel dono che risiede il senso del romanzo, il suo vero nucleo: è una linea che, spezzatasi, con i lembi ancora sbrindellati, si riallaccia a se stessa formando un grande cerchio che è la vita nella sua globalità, la vita del singolo sommata alla vita di tutti.

La narrazione non si presenta come una domanda saccente, imperiosa, – perché salvare i viventi? – ma scorre lenta, seguendo il semplice corso degli eventi, senza imporre una presa di posizione. Ed è proprio nell’assoluta libertà di scelta che risiede la bellezza di questo romanzo, la libertà di non schierarsi ma semplicemente assistere ad un fenomeno di transizione con la stessa leggerezza con cui si alza lo sguardo e si osservano gli stormi migrare verso terre lontane.

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Perché (non) leggere

Prendendo spunto da un articolo letto un po’ di tempo fa (eccolo qui), ho deciso di stilare un elenco (ovviamente ironico) di motivi per non leggere. Ecco il risultato:

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Ecco il giovane Gian Paolo Sarto quando era un aitante giovane in età da matrimonio.

1. Ultimamente va di moda dire che l’intelligenza è sexy ma la triste verità è che non è vero. Jean Paul Sartre era intelligentissimo ma era anche sexy come uno scaldabagno. Quindi mi dispiace ma questa retorica hipster non funziona, anzi: l’ideale attuale di fidanzato perfetto è l’homo zarrogante ( unione di zarro ed arrogante, i pilastri della virilità odierna) che ti dedica le canzoni di Tiziano Ferro come se fossero sonetti di Neruda e cita sapientemente Prévert ogni San Valentino grazie alla pubblicità dei Baci Perugina (che è la stessa da ormai cinque anni e perfino il mio cane abbaia a memoria.)

2. Leggere occupa tempo e noi il tempo non ce l’abbiamo. Tra il nuovo album di Rihanna (uno al mese, due quando riesce a convincere qualche povero cristo a duettare con lei) e la nuova stagione di House of Cards, chi ha davvero tempo di leggere? Il massimo che riusciamo a fare è sbirciare la Gazzetta dello Sport e sfogliare svogliatamente Novella 200 in attesa dalla parrucchiera, senza contare la lettura svogliata del libro regalato a Natale dai nonni che spesso finisce a prendere polvere sul comodino. Meglio aspettare la pensione per dedicarsi ai romanzetti Harmony ed ai manuali di giardinaggio.

3. Leggere costa. Oggettivamente, una novità letteraria si aggira tra i 15 ed i 20 euro ovvero il prezzo di:

– una serata all you can eat al ristorante cinese dove riempiono i ravioli di orecchie di gatto;                                                                                                                       – un appuntamento  dalla parrucchiera di famiglia che ti taglia i capelli come vuole lei (il pianto disperato una volta tornata a casa è incluso nel prezzo) ;

– due serate al cinema in compagnia di Frank Matano e dei Soliti Idioti;

– talmente tante Goleador da andare in overdose e visitare virtualmente il mondo di Willy Wonka.

E a me, sinceramente, gli Umpa Lumpa sono sempre piaciuti.

4. Leggere è un invito alla vita sedentaria. Che senso ha ammazzarsi di gallette di riso insipide, pasta integrale gommosa e beveroni cavolfiore&verza per accumulare grassi sul divano? Che senso hanno tutti gli squat, le flessioni, le macchine infernali? Quando inventeranno il tapis-roulant con il Kindle integrato, forse ne riparleremo.

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Che disdetta.

5. Leggere ti allontana dalla vita reale e ti trasporta in un mondo fantastico dove i tuoi problemi vengono messi in secondo pieno rispetto a quelli del protagonista del libro. Un po’ come se fossi una tronista e perdessi il tuo trono per colpa di Tina Cipollari. Meglio rimanere con i piedi per terra e concentrarci sulla nostra vita, o almeno fare finta di averne una postando strategicamente selfie su Instagram e taggandoci a destra e a manca nei locali in centro.

6. Leggere arricchisce spaventosamente il tuo vocabolario e potrebbe causare problemi di comprensione. Da piccola mi ricordo di aver iniziato una frase con ‘Stamane la maestra ci ha detto..’ e subito mi hanno chiesto se fossi uscita da un romanzo ottocentesco. Ecco perché sarebbe meglio evitare termini ostici e desueti e favorire un lessico scurrile in modo da facilitare la comunicazione con il volgo. Nota bene: se la frase non inizia con ‘Minchia’, sappi che nessuno ti presterà attenzione.

P.S. Ogni riferimento a cose e/o persone è puramente casuale e non voluto.

O forse no.

L’Oriana furiosa

3870277-SCAVULLO-BIGC’era una volta una giornalista che aveva sempre sognato di disertare per diventare uno scrittore (e non s’intende attraverso un’operazione per cambiare di sesso). C’era una volta una figura che io ammiro enormemente per le sue doti e soprattutto per la sua forza, la sua decisione, il suo talento indiscutibile. C’era una volta Oriana Fallaci, e se ci fosse ancora adesso, sarebbe furiosa e scriverebbe tutte le cattiverie che si merita su Marco Turco, uno  sceneggiatore con i paraocchi, velatamente maschilista, di sicuro scarsamente dotato nonché privo d’immaginazione ed empatia.

L’Oriana è il titolo della fiction in due puntate andata in onda Lunedì 16/02 e Martedì 17/02 su Rai1 nella quale Vittoria Puccini (sì, proprio Elisa di Rivombrosa) veste i panni di una delle figure di spicco del giornalismo italiano. Ed eccomi già a storcere il naso: perché scegliere un’attrice bellissima ma di poco spessore? Perché invece non scegliere qualcuno di meno appariscente ma più adatta a questo ruolo complesso, una donna dalle mille sfaccettature e contraddizioni? Perché non lasciare spazio ad un’attrice meno conosciuta ma più adatta? Vittoria Puccini non regge il ruolo e scivola nella caricatura, a partire dal timbro forzatamente fiorentino, quasi fastidioso, e dalla vacuità dell’interpretazione che mette in risalto la sua bellezza e nient’altro. La Fallaci non è mai stata una donna così,  – così femminile, così belloccia, così leggera-  e la Puccini sembra una giovane francesina dall’eyeliner marcato, le unghie rosse ed il vizio provocante del fumo. L’archetipo di ciò Oriana non era: una donna semplice, frivola e priva di sfumature.

La vicenda che incornicia la biopic è l’incontro con una giovane studentessa universitaria, Lisa, che aiuta l’ormai vecchia e dolorante Oriana a mettere ordine nella confusione del suo archivio tra nastri, fotografie e registrazioni. L’attrito che da subito si crea tra le due è prevedibile: Lisa è il prototipo della ragazza con la testa tra le nuvole, ingenua, sciatta, che vuole seguire il suo sogno di diventare giornalista senza averne assolutamente la stoffa. Infatti, il suo atteggiamento è umile, ossequioso, quasi patetico ed è priva della curiosità sferzante e dell’audacia e sfrontatezza, ovvero di ciò che fa di Oriana una grande giornalista. Le due si scontrano ma mai apertamente poiché Lisa è remissiva, impaurita davanti al suo idolo, e sospetto che se quest’incontro fosse avvenuto nella realtà, la Fallaci l’avrebbe mangiata viva, lasciandone solo qualche ossicino ed un ciuffo di capelli crespi.

ofallaciCon il pretesto di riordinare l’archivio, si ripercorre la vita di Oriana: dal periodo della resistenza attiva che marcò la sua infanzia, i primi esordi nella cronaca nera fiorentina, l’inizio della collaborazione con l’Europeo che inizia a farsi sempre più stretta finché non le viene assegnato un incarico importante: un reportage sulla condizione femminile nel mondo. (La fiction, per discutibili esigenze di sintesi, accenna en passant sul periodo in cui volò in America per intervistare le grandi star dell’epoca, tralasciando il fatto che qui che inizia a sperimentare una nuova concezione di intervista, il bisturi letterario che affinerà col tempo e l’esperienza). La Fallaci si ritrova in un universo parallelo che le risulta surreale e incompatibile con la realtà: lo stupore che prova stride con l’eccentricità dei suoi gesti (dimenticarsi il velo per incontrare una delle più importanti personalità islamiche? Lamentarsi perché deve togliersi lo smalto? Stiamo parlando di Paris Hilton?) e si dimostra totalmente impreparata rispetto ai costumi altrui, come se avesse dimenticato i compiti sulla cultura orientale a casa. La reazione della Fallaci fu di certo un rimescolio di curiosità feroce, sgomento ed incredulità ma dubito che ciò si tradusse in sbadataggine ed inadeguatezza: era precisa, metodica e sempre informata, in modo da porre le domande giuste, quelle che sapevano far uscire la verità scomoda e sbatterla provocatoriamente sotto il naso di tutti. Gli incontri e le interviste riportati sullo schermo sono un copia-e-incolla dei dialoghi surreali scritti dallo sceneggiatore e passaggi tratti dalle sue vere interviste ed il risultato è una costante alternanza di battute cretine, riflessioni vuote, domande stupide e citazioni posticce.

Successivamente si apre una grande parentesi sulla guerra del Vietnam alla quale Oriana assistette in prima linea: è lì che vive gli orrori della guerra ed una liaison amorosa con François Pelou, direttore dell’Agence France-Presse di Saigon, con tanto di giretto romantico in pagoda per le campagne vietnamite. L’episodio cruciale non è con l’amante francese, bensì con un’orfana vietnamita: si ritrova per caso in un orfanotrofio pieno di bambini e le suore la implorano di sceglierne uno, anzi una, poiché i maschietti non potevano essere esportati perché potenziali futuri soldati. Una bambina come tante, caschetto liscio e frangetta sugli occhio, le si avvicina e le ruba gli occhiali da sole, sorridendole. Oriana è molto colpita da questo gesto ma lascia la bambina e, una volta anziana, lo ricorda con rimorso. Più che un avvenimento verosimile, sembrerebbe una scenetta strappalacrime piazzata ad hoc per sottolineare la mancata maternità della giornalista. Infatti, lo stesso tema è ripreso più avanti, quando abortirà spontaneamente il figlio di Panagoulis, il vero amore della sua vita. La Fallaci ebbe in realtà due aborti spontanei che la portarono ad una riflessione  che diverrà un libro: Lettere ad un bambino mai nato. Lo sceneggiatore cerca quasi di giustificare maldestramente la sua mancata maternità, dipingendola come un vuoto incolmabile che in realtà non esiste: Oriana non ebbe figli ma considerò la scrittura dei suoi libri come un lungo e travagliato parto e  le sue opere come bambini di carta. Senza rimpianti o rimorsi.

Nel 1973, Oriana incontra l’amore della sua vita: Alexandros Panagulis, un leader dell’opposizione greca al tempo, che era stato perseguitato, torturato e incarcerato a lungo. Si incontrarono il giorno in cui egli uscì dal carcere: ne diventerà la compagna di vita fino alla morte di lui in un misterioso attentato. Anche questi episodi sono riassunti in poche scene e si passa dal primo incontro al primo s’agapo nel giro di pochi minuti. Viene anche mostrata parte della loro storia turbolenta, tra Firenze ed Atene, fino alla morte di lui ed alla stesura di Un uomo. Successivamente, la giornalista intervista i grandi nomi del panorama mondiale e l’accento non viene posto sulla sua spettacolare capacità di porre le domande giuste, la minuziosità con cui le preparava affinché fossero perfette, lucenti, affilate. Dal suo sito si legge infatti che:

La tecnica delle sue interviste, in continua crescita ed evoluzione, riesce a incunearsi sempre più a fondo nei meccanismi dei giochi di potere. Quel potere che tanto affascina Oriana, e che tanto la ripugna. Capirne le trame più segrete è la sua più grande ambizione: il momento dell’intervista si è ormai tramutato in un’azione di guerra, una partita a scacchi in cui la mossa giusta può mettere in ginocchio «l’imputato» e spingerlo a confessare cose che mai avrebbe immaginato di rivelare, cercando in tutti i modi di «ascoltare e capire come un tarlo infilato nel legno della storia». Sono essenziali gli interrogativi che la guidano: perché alcune persone piuttosto che altre hanno il potere tra le mani? Sono più intelligenti, più furbe, o soltanto più ambiziose, e quindi pronte a calpestare chiunque capiti sulla loro strada? Il potere è sempre uno strumento orribile, oppure è possibile che chi lo possieda sia innocente, semplicemente meritevole?

Nella fiction è riportato l’incontro con  l’ayatollah Khomeini, un’intervista che passerà alla storia poiché la Fallaci si tolse il velo in segno di protesta, ed il finto matrimonio che dovette contrarre per presentarsi ai suoi occhi come donna pura. Questi episodi rappresentano l’apice della riflessione sull’islamismo e le sue leggi severe e vengono sminuiti, trasformati in barzelletta: un’Oriana isterica, stizzita, ai limiti della maleducazione, che urla all’ayatollah mentre lui si alza e se ne va, seduta, sola, impotente.

La narrazione segue piatta, Oriana si ritira nella sua brownstone a New York per la stesura di Insciallah e successivamente, in reazione all’attentato dell’11 Settembre, La rabbia e l’orgoglio. Verso la fine del film vi è un episodio agghiacciante: un dialogo surreale tra Oriana-giovane ed Oriana-vecchia,  l’ovvietà di cui non avevamo bisogno. Lo scontro è architettato per mettere sottolineare l’evoluzione della protagonista e riesce solamente ad affilare gli spigoli della personalità della giornalista. Si tratta di un passaggio inutile, tragicomico e che tenta goffamente di spiegare l’ovvio: il cambiamento personale, la maturità e la rassegnazione nei confronti della vita dopo aver vissuto così tanto e così intensamente. Il ritratto che si cerca di tratteggiare  non è che la riduzione di una grande donna all’ombra di se stessa: una madre mancata ed una vecchia stizzita dai dolori della malattia ovvero il ricordo che nessuno vorrebbe che gli altri avessero di se stesso e che soprattutto, un personaggio così importante, non merita affatto. L’Oriana che si definiva scrittore e mai scrittrice, che non aveva paura di chiamare la sua malattia cancro, che non temeva la morte ma la osservava circospetta, che rischiò più volte la vita in guerra per fornire un’informazione completa e libera. Una donna straordinaria, ridimensionata per il palato schizzinoso dello spettatore italiano medio, ritenuto troppo stupido per comprendere i meccanismi della vita e che dev’essere accompagnato per mano durante la visione (lo stesso italiano medio che invece non se la cava male con la complessità sfacciata delle serie tv straniere dai mille intrighi e sub-plots).

A voi l’ardua sentenza.